martedì 30 aprile 2013

GIOCHI DI PRESTIGIO di Moreno Pasquinelli

30 aprile. IL GOVERNO LETTA SI È INSEDIATO. Mentre quello di Mario Monti nasceva sostenevamo che esso avrebbe miseramente fallito. Non perché non sarebbe riuscito a dissanguare il popolo lavoratore, non perché non avrebbe rispettato i soffocanti vincoli europei. Dicevamo che, proprio per l'ossequiosa accettazione di questi vincoli stringenti, non avrebbe centrato l'obbiettivo dichiarato di far uscire l'economia dalla più profonda depressione economia. Infatti l'ha accentuata. E siccome è ancora questo l'obbiettivo che si è pomposamente proposto Letta, non è difficile pronosticare un secondo, clamoroso fallimento.

Anche ove le misure prioritarie annunciate da Letta fossero effettivamente adottate esse non faranno uscire il paese dal disastro. Pannicelli caldi, che potranno allungare l'agonia del sistema capitalistico italiano. Avremo modo di tornare sull'aleatorietà delle misure economiche indicate da Letta nel suo discorsetto demagogico. Basti per ora dire poche cose essenziali. 

Che il nuovo governo riesca a rianimare il collassato capitalismo italiano dipende anzitutto dalla misericordia dell'Unione europea, leggi della Merkel, non a caso la questua a Berlino è il primo atto politico del nuovo Presidente del consiglio. Otterrà il nuovo governo il semaforo verde affinché sia concesso a Roma lo slittamento del pareggio di bilancio? Vedremo, di certo la Merkel non vorrà mettere a repentaglio la sua terza vittoria elettorale.

Ottenendo l'allentamento dei vincoli alle politiche di bilancio il governo spera di reperire le risorse necessarie a sostenere alcune delle misure annunciate e dare una boccata d'ossigeno all'economia in asfissia. Ma siamo bel lontani sia dall'uscita dal tunnel che da coerenti politiche anti-cicliche anche solo di stampo keynesiano. E ne siamo lontani poiché, repetita juvant, queste non sono possibili al nostro paese finché non uscirà della gabbia dell'Unione europea, fino a quando, privato della sovranità monetaria (ci sono ancora in giro cretini che pensano che la moneta sia uno strumento neutrale) prenderà a prestito i quattrini da una banca privata qual è la Bce.

A buon intenditor poche parole. Letta non ha solo ribadito che la nascita di un super-Stato
europeo è l'obbligato punto d'approdo, ha solennemente indicato nell'euro e nella Bce le "due premesse macroeconomiche" imprescindibili che guideranno l'operato del suo governo.
Nessun accenno critico alle Tavole delle legge dei Trattati europei, sacro resta pure il Fiscal compact —per alimentare il quale solo quest'anno l'Italia dovrà sborsare 40 miliardi, circa il doppio delle risorse che Letta spera di stornare dallo sforamento del pareggio di bilancio. 

Qual è dunque la recondita speranza del nuovo Primo ministro e dei suoi sodali bi/tri/partisan? Che duri ancora per qualche mese l'euforia dei mercati finanziari (determinata dalla enorme liquidità messa in circolazione dalle banche centrali americana, giapponese, inglese e in parte anche dalla Bce), quella disposizione al risk-on che spiega l'ondata di acquisti di titoli spazzatura, tra cui quelli di stato italiani —spread in calo a quota 271, tasso Btp a dieci anni al 3,84%, il livello prima dello scoppio della crisi greca. Che lo Stato possa continuare a finanziarsi a basso costo è infatti la premessa indispensabile perché esso possa, sia allentare la pressione fiscale sul capitale che aprire i cordoni della borsa per alleviare i costi sociali della crisi. Molto dipende dunque da quanto ancora durerà la pacchia sui mercati finanziari. Poco secondo alcuni analisti, che pronosticano lo scoppio imminenente di una nuova bolla finanziaria.

Non siamo quindi alle prese con una inversione di rotta rispetto alle direttive macroeconomiche deflazionistiche —che implicherebbero non solo piegare Berlino, ma stravolgere i Trattati e ridisegnare il ruolo e le funzioni della Bce—, siamo tuttavia davanti alla necessità, per partiti e notabili oramai moribondi, di lasciarsi alle spalle la famigerata "Agenda Monti" che la stragrande maggioranza dei cittadini ha sonoramente bocciato col voto di febbraio. Qui sta il miracolo, dando una botta al cerchio e una alla botte, che questo governo deve compiere se vuole riconsegnare ai partiti della maggioranza il consenso perduto. Lorsignori debbono riuscirci ad ogni costo, pena la fine rovinosa loro e della "seconda Repubblica".

E ci tocca segnalare, in questa sospensione della rissa teatrale tra le due cricche partitiche dominanti, che il dominus risulta proprio essere il morto-non-morto Berlusconi, la cui magnanimità ha salvato il PD da un nuovo e definitivo tracollo elettorale. Un salvagente, si capisce, che non è stato offerto a gratis, ma in cambio di un definitivo salvacondotto —anche dal rispetto di questo patto da parte di certa magistratura dipende quanto a lungo reggerà il cessate-il-fuoco.

Al di la dei rituali e retorici discorsi che caratterizzano la cerimonia battesimale di ogni nuovo governo, tutto si riduce a questo: partiti e notabili hanno accettato di unirsi more uxorio per tirare a campare. Costretti controvoglia a fare fronte comune dopo i rovesci subiti con le ultime elezioni, essi sanno che questa è la loro ultima chance per tenere salde nelle loro mani, per nome e per conto delle classi dominanti, le redini del potere
Il loro obbiettivo vero è dunque tutto politico: sterilizzare, con alcune concessioni tattiche, l'ondata d'indignazione popolare, ed al contempo erigere più robuste paratie strategiche per contenere l'eventuale sollevazione —la paura fa novanta: i reiterati ringraziamenti alle Forze di polizia sono stati i passaggi più applauditi del discorso di Letta.
I costi della "politica": ma che che parliamo?


Concessioni sui "costi della politica" che faranno velo alla "riforma" elettorale, ovvero un sistema ancor più truffaldino per consegnare a delle minoranze il bastone del comando nonché, e questo è forse il disegno loro più ambizioso, scardinare definitivamente la Costituzione per passare da un regime ancora formalmente parlamentare ad uno presidenziale.

Questo sì, l'edificare una "Terza Repubblica", è un disegno davvero grande. I demiurghi-nani vorrebbero infatti che quella appena iniziata sia una Legislazione costituente. Le forze dell'opposizione, a partire dal M5S (e su questo verificheremo la sua effettiva consistenza e caratura democratica), debbono anzitutto stare ben attente alle trappole e quindi impedirlo. Si illudono se pensano che basti opporre una guerra di posizione dall'alto, nelle aule parlamentari. Si dovrà ricorrere ad una guerra di movimento dal basso, il cui teatro è la società tutta.

Letta l'ha detto apertamente, più ancora che dal versante della recessione, il pericolo per Lorsignori viene dal rischio di un'esplosione del conflitto sociale. Tra i due fattori c'è tuttavia una correlazione oramai stringente. La prima alimenta il secondo, fermo restando che solo scardinando alle fondamenta questo sistema oramai in putrefazione sarà possibile al popolo lavoratore aprirsi una strada verso un futuro, se non radioso, almeno dignitoso.
Un'opposizione che dovrà lottare accrescendo forza e consensi. 
Tenendo bene a mente che:
«Non nel dolce mormorio delle lodi,
ma nelle urla selvagge del furore
sentiamo le note del consenso».


lunedì 29 aprile 2013

LA BOCCA DELLA VERITÀ di sollevAzione

29 aprile. «Il vero problema non è che qualcuno vada davanti a Palazzo Chigi e spari durante il giuramento del governo. Il vero problema è che in questo momento, ne sono assolutamente certo, ci sono alcuni milioni di italiani che pensano 'peccato che non abbia fatto secco almeno un ministro».

Contro Vittorio Bertola (nella foto), consigliere comunale di Torino di M5S, autore del tweet di cui sopra, si è scatenato un vera e propria campagna di linciaggio, il Piddino Damiano in prima fila.
Bertola ha semplicemente detto la verità, ciò che pensano una gran parte degli italiani.
Ma l'additare al pubblico ludibrio il Bertola  è solo l'aspetto più saliente della crociata contro M5S e Beppe Grillo, indicati come i "responsabili morali" del tentativo di Luigi Preiti di "far secco" un politico. Il risultato il potere l'ha presto ottenuto: i vertici "grillini" si son subito aggiunti al coro sistemico che ha gridato all'esecrazione per il "vile gesto".

La qual cosa ripropone la questione di cosa M5S sia davvero. Non si può dare a questa domanda una risposta inequivocabile. M5S è come un invaso in cui sono confluiti i cento rivoli di una piena, quella dell'indignazione e della rabbia sociali causate dalla crisi e dallo squallore dei partiti e delle classi e cricche dominanti. 
Sarà difficile a Beppe Grillo tenere unite le tante anime e amalgamarle. Non ne ha nemmeno il tempo. Se il sistema si avviterà nella sua crisi, se i conflitti sociali cresceranno (e di questo sono spia sicura i colpi di pistola di Luigi Preiti) non sarà possibile per nessuno "dare una botta al cerchio e una alla botte". Ogni forza politica sarà obbligata a fare una scelta chiara e definitiva di campo: o rovesciare il sistema o difenderlo. 
Tanto più questo vale per M5S, che oggi ancora si barcamena nelle acque agitate tra Scilla e Cariddi.
LUIGI PREITI al momento del suo arresto

Un indicatore di quanto potrebbe accadere ai "grillini" ce lo fornisce LA STAMPA del 24 aprile scorso, con un articolo di Michele Brambilla, che da conto della delusione dell'anima borghese, ex-berlusconiana ed ex-leghista, e adombra l'ipotesi che M5S perderà per strada l'appoggio dei ceti capitalisti.

IL PENTIMENTO DEI GRILLI DI DESTRA: "M5S estremista, non lo rivoteremo"

«Dario Fo? Gino Strada? Stefano Rodotà? Ma per l’amor di Dio!!!». Graziano Brenna, imprenditore, vicepresidente di Confindustria Como, una vita a votare a destra, due mesi fa s’era fatto sedurre da Beppe Grillo e l’aveva votato. Oggi dice che non lo rifarà più e invoca l’amore dell’Altissimo quasi a chiedere perdono per essersi lasciato ingannare da un diavolo: «Quello non è il mio mondo. Troppo di sinistra».

Come Graziano Brenna, nel Nord già leghista e berlusconiano ce ne sono molti. «Quando ho detto che avrei votato Grillo, io che per vent’anni ho votato il Cavaliere, nel mio mondo mi sono attirato qualche simpatia e soprattutto molte antipatie. Però le garantisco», mi dice Brenna, «che sono tanti i miei colleghi che hanno lasciato la Lega e il Pdl per votare il MoVimento Cinque Stelle. Oggi non lo rivoterebbero più. Sa che cosa diciamo, noi che nel giro di soli due mesi siamo passati da neogrillini a ex grillini? Che quel movimento lì ha un’anima da sinistra antagonista, radicale. Altro che trasversali...».

Forse il dimezzamento dei voti del M5S in Friuli dipende soprattutto da questo. Grillo, due mesi fa, era stato abile ad attrarre a sé universi opposti. I No Tav, la sinistra delusa, gli ambientalisti anti-inceneritori e i teorici della «decrescita felice» da una parte; ma anche, dall’altra, tutto un popolo di piccoli imprenditori, di partite Iva, di commercianti vessati da fisco e burocrazia. Grillo tuonava contro Equitalia, urlava che le piccole imprese sono la nostra prima ricchezza e vanno aiutate, scomunicava perfino i sindacati: e tutto questo a un elettorato deluso dalle promesse mancate di Berlusconi e della Lega piaceva, e molto. Invano «il Giornale» avvertiva: attenti, la vera radice di Grillo è quella della sinistra dei centri sociali, con il consueto pizzico di radical chic a dare «spessore» intellettuale, perché in Italia, si sa, gli intellettuali possono essere solo di sinistra. Invano, perché in cabina elettorale molti di centrodestra hanno commesso adulterio.

Ma sono bastati due mesi per convincere questi «grillini di destra» di aver sbagliato indirizzo. Il risultato del Friuli – dal 27 al 14 per cento – non può essere spiegato solo con la fisiologica discrepanza tra voto per le politiche e voto amministrativo. «La croce sul simbolo delle cinque stelle è servita», dice ancora Brenna, «a mandare a casa buona parte dei vecchi politici. Ma Grillo non lo voterò più. Le sue ultime uscite sono state penose. Il colpo di Stato, la marcia su Roma... Ma per favore».

Una che ha il polso della rabbia dei piccoli imprenditori del Nord contro Equitalia e le banche (due dei bersagli preferiti di Grillo) è Wally Bonvicini, che a Parma ha messo in piedi un’associazione, Federitalia, che assiste appunto «i tartassati». «Sento centinaia di piccoli imprenditori», mi racconta, «che due mesi fa hanno abbandonato Lega e Pdl per votare Grillo. Tutti mi dicono che oggi col piffero che lo rivoterebbero». Perché troppo di sinistra? Anche, ma non solo: «Hanno capito che il MoVimento Cinque Stelle non ha fatto nulla per loro. Sa perché? Perché non hanno la cultura della piccola impresa. Sono bravi ragazzi, simpatici, ma – come posso dire? – privi di robustezza psicologica. Sono quasi tutti ex lavoratori dipendenti e per carità, non c’è niente di male: ma voglio dire che non hanno la consuetudine alla trattativa, al cercare di cavarsela da sé. E questa, nei contenziosi con Equitalia e con le banche, è una lacuna che pesa». In più, per una di Parma, pesa anche l’esperienza della giunta grillina: «Non hanno fatto niente. Provi a girare in città: le strade sono piene di buche», è la sentenza impietosa di Wally Bonvicini.

Ma poi. Perfino da sinistra dicono che quelli di Grillo sono troppo di sinistra. Nel senso di estremisti. Racconta Patrizia Maestri, deputata Pd di Parma: «L’altro ieri ho fatto un appello al sindaco Federico Pizzarotti, che è una persona moderata, affinché Grillo prendesse le distanze dalla caccia all’uomo per le vie di Roma seguita all’elezione di Napolitano. Pensi che lui ha risposto dicendo di trovare “gravi” le mie “insinuazioni”, e il consigliere comunale grillino Mauro Nuzzo mi ha intimato di “non oltrepassare il limite del ridicolo”. Mah».

Torneranno, i delusi da Grillo, ai vecchi amori? «Per quanto mi riguarda no», dice Graziano Brenna: «Non ne possiamo più né di Berlusconi né di Bersani o Franceschini. Spero nei giovani, da Renzi alla Meloni». 

Il boom grillino appena cominciato è già finito? Troppo presto, comunque, per dirlo: i partiti sono ancora capaci di rianimarlo, suicidandosi. Dipende da loro».
 

domenica 28 aprile 2013

SCUOLA DI RIVOLTA


«Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario»



Decenni di assuefazione all’ideologia liberista, al pensiero unico dominante, al dominio economico politico e culturale del più sfrenato capitalismo, hanno intorpidito le coscienze, spento la loro capacità di analisi, comprensione e critica della realtà e annullato la speranza, soprattutto fra noi giovani, di poter fare qualcosa per rivoluzionare questo stato di cose.



Siamo studenti in un sistema scolastico che nulla ha più da offrire.

Siamo precari in un paese che non offre più lavoro. In cui la sanità pubblica, allo sfascio, non può più curarci. Dove i nostri padri e nonni crepano per due soldi di pensione, mentre noi la pensione non ce l’avremo neppure. I dominanti, in nome dell’euro, ci impongono i loro diktat, il capitale delocalizza le fabbriche e costringe i nostri migliori cervelli ad emigrare.

Se le cose stanno così c’è un motivo, c’è una spiegazione, c’è una soluzione.

Lo stato di cose in cui viviamo ci dice che dev’essere cambiato. Non siamo più disposti a marcire nella gabbia sociale e ideologica in cui ci hanno rinchiuso.

Vogliamo capire le cause del marasma, come mai siamo diventati sudditi in una democrazia tiranna, che inneggia ai diritti civili e umani, mentre a milioni non arriviamo a fine mese, e così in tanti decidono addirittura di farla finita.

Vogliamo imparare come funziona questo sistema, quali sono le sue contraddizioni e i suoi punti deboli, vogliamo trovare la leva con cui scardinarlo definitivamente.

Vogliamo imparare a resistere e lottare.

Molti di noi hanno espresso nelle urne la loro indignazione, Oggi vediamo cosa vuol dire mandare in parlamento dei cittadini come noi, ma del tutto impreparati alla sfida di cambiare il paese.


Vogliamo iniziare un percorso di studio collettivo, che allarghi le nostre conoscenze, che stimoli le menti e ci aiuti a capire quale possa essere l’alternativa, affinché ne usufruiscano non solo i giovani del MPl, ma tutti quelli che sono decisi a rovesciare l'ordine di cose esistente.

Quanto prima renderemo noti docenti e relatori.

Il Seminario si svolgerà in Umbria, nei pressi di Perugia, da lunedì 19 a venerdì 23 agosto, in un Ostello della Gioventù. Gli arrivi sono previsti entro l'ora di cena di domenica 18 agosto. Le partenze il sabato mattina del 24 agosto.

Il costo dell’intero soggiorno è di € 196,00 —34€ il costo di un giorno di pensione completa. La cifra comprende pernottamento, colazione, pranzo e cena. 
Per informazioni e prenotazioni scrivici a: scuolampl@gmail.com
Oppure telefona al: 339.2071977

AUGURI ITALIA (sparatoria mentre si insedia il governo Letta)

28 aprile. Ore 12:00. Dell'attentatore che ha sparato a due carabinieri sotto la sede del governo (nel momento in cui Letta Enrico giurava) diranno che è uno squilibrato, anzi i media già lo definiscono così, prima ancora di sapere chi egli sia e le sue ragioni. Sappiamo il nome:Luigi Preiti (nella foto al momento della cattura. Sappiamo anche che è un muratore disoccupato. Comodo, e cinico, metterla sul piano della follia. Ma nella "follia" c'è forse un senso simbolico che a nessun italiano sfugge. La spia di una situazione sociale intollerabile, di quel che potrebbe accadere se il popolo non caccerà, prima che sia troppo tardi, i mercanti dal tempio.

«Francamente tutto questo stupore non lo capisco….un pò sicuramente è la crisi che non fa assumere ma secondo voi costringere tutti ad andare in pensione a 67, e oltre, anni invece dei 58-60 di ieri , crea occupazione o crea disoccupazione? Si può fare un conto banale, 10 anni in più per andare in pensione crea un posto in meno disponibile ogni, circa 4 posti. 
Ciò significa che a fronte di una crescita zero la disoccupazione tendenziale sarà del 20-25% circa a popolazione costante. Il problema è che alla fine chi resterà a piedi saranno gli over 50 che le aziende non vorranno più e per loro sarà impossibile trovare lavoro…
auguri Italia ci aspettano anni di guerra civile. Una previsione? Tra 5-10 anni se l’Italia non otterrà la crescita economica (almeno 1-1,5% di PIL ogni anno) dal 2018-20 si sparerà nelle strade».

[Commento all'articolo del 27 aprile 2013 sul corriere on line di  di Fabio Savelli Generation jobless, il ritratto (impietoso) dell’Economist - Età Pensionabile ? guerra civile.. ] 

CHE BESTIA È? di Leonardo Mazzei

Somiglia tanto ad un Monti Bis

28 aprile. Il governo Letta (il nipote) è nato. Ma che governo è? Non è un «governo di scopo», dato che (almeno all'apparenza) non ha limiti né temporali, né programmatici. Non è (almeno nelle intenzioni) un governicchio «balneare», nato solo per prendere tempo. Che sia un governissimo è l'auspicio di molti dei suoi fautori, ma che lo possa essere sul serio è tutto da vedere.
Le intenzioni, però, sono importanti. Personalmente, prendo atto di essermi sbagliato nel prevedere un ritorno alle urne nell'arco di pochi mesi. Il fatto è che la sezione «piddina» del fronte trasversale delle «larghe intese» non ha esitato un secondo neppure davanti alla prospettiva dell'auto-distruzione del proprio partito. E questo, considerato il ruolo del Pd all'interno del sistema politico italiano, non era facilmente prevedibile.

La carica dei 101 «grandi elettori» piddini, che silurando Prodi hanno impallinato definitivamente Bersani, è stato infatti lo snodo decisivo della crisi politica. Senza quell'operazione, giocata nel segreto dell'urna, Napolitano non sarebbe tornato al Colle e Letta sarebbe rimasto a Pisa.

Centouno è un bel numero. Non una piccola cricca dunque, bensì un quarto dei grandi elettori del partito. Che essi abbiano agito con una precisa finalità politica è fin troppo ovvio. Che lo abbiano fatto in stretto raccordo con i finti nemici del Pdl e con i compari di Scelta Civica, idem. E che il piccolo golpista del Quirinale fosse della partita, fin dall'inizio, è fuori dubbio. Resta però una domanda: perché l'hanno fatto?

Una tale determinazione non può giustificarsi solo con i piccoli calcoli correntizi degli ex-Ppi o dei dalemiani. Tantomeno con le ambizioni personali di alcuni protagonisti. Calcoli ed ambizioni avranno come sempre giocato il loro ruolo, ma solo qualcosa di più, che attiene alla natura profonda del Pd, può spiegare l'inversione di 180° operata nell'arco di poche ore.

Un fatto di questo tipo si può comprendere solo se usciamo dall'ambito ristretto delle dinamiche partitiche. Il fatto è che il terremoto prodotto dalle elezioni di febbraio ha spaventato sul serio il blocco dominante. Una crisi politica si può sempre affrontare con mezzi ordinari, ma se capita nel bel mezzo di una crisi economica senza sbocchi, essa richiede soluzioni d'emergenza. Accadde così anche nel novembre 2011, con l'intronizzazione di Monti a Palazzo Chigi e la sua investitura a Salvatore della patria.

Ed è andata così anche in questo aprile 2013. E questo è il secondo elemento di forte continuità con il governo uscente, essendo il primo l'identico ruolo di regista interpretato oggi come allora dal monarca del Quirinale, vero referente delle oligarchie nostrane ed euroatlantiche, terrorizzate dall'ipotesi che l'Italia possa in qualche modo sganciarsi dalla gabbia europea.

Ci sono poi altri elementi di continuità con il governo Monti: due ministri resteranno in carica, magari cambiando ministero (Cancellieri e Moavero), altri due sono montisti a tutti gli effetti (Mauro e D'Alia), quattro sono qualificati come «tecnici», ma qui più che il numero conta il peso di un altro uomo di Bankitalia (Saccomanni) all'economia. Un discorso a parte meriterebbe (ma non lo facciamo qui) l'ultra sionista ed iper-atlantista Bonino, una ministra degli esteri che rappresenterà l'Italia sventolando la bandiera israeliana con la destra e quella a stelle e strisce con la sinistra.

Naturalmente ci sono anche i cambiamenti. Un altro governo mascherato come «tecnico» sarebbe stato semplicemente improponibile, così come il volto di Monti che è stato infatti prontamente cestinato. Occorreva mascherare la continuità avvolgendola in un involucro nuovo. Ecco dunque il governo politico (così lo ha buffamente qualificato Napolitano, quasi potessero esistere governi «non politici»). La «politicità» sta nel diretto coinvolgimento di tre forze politiche (Pd, Pdl, Sc), che sono però esattamente le stesse che per oltre un anno hanno garantito la vita e le porcherie politiche e sociali del peggior governo della storia repubblicana.

Cambiamento nella continuità: questo il succo dell'operazione che ha portato Letta a Palazzo Chigi. A legittimare politicamente il «governo dei tecnici» ci aveva provato lo stesso Monti, ma la sua «ascesa» in politica ha fatto flop nelle urne. Dunque bisognava procedere per altre vie. Ma la strada era stretta. Se da un lato occorreva negare il senso del voto dei febbraio, dall'altro bisognava mettere assieme i burattini del teatrino della politica secondo-repubblichina.

Il Pd e il Pdl, per quanto costituitisi nella forma attuale assai di recente, sono il punto d'arrivo della degenerazione politica prodotta dal bipolarismo impostosi vent'anni fa. Per tutto questo periodo, questi due poli hanno litigato sulle questioni secondarie, condividendo invece le scelte fondamentali: atlantismo in politica estera e militare, eurismo prima ancora che europeismo come dogma intangibile alla base di ogni decisione, liberismo sfrenato ed amore per le privatizzazioni, attacco sistematico ai diritti dei lavoratori, cultura presidenzialista... e si potrebbe continuare.

Per due decenni la farsa bipolare imponeva però il litigio. Che era poi il modo migliore per accreditare l'idea di un bipolarismo democratico. Ora la crisi non può più permettersi il lusso di questo teatrino, e l'imbroglio «democratico» è svelato. I due poli vanno a nozze, ben sapendo che vi sarà un prezzo da pagare. Comodo, molto più comodo, proseguire come prima, con una intercambiabilità nella sostanza occultata però dalle grida televisive di talk show sempre più meschini. Più comodo, ma oggi impossibile visti i numeri parlamentari.

Ecco un effetto del successo elettorale del M5S: aver posto fine alla farsa precedente, aver costretto Pd e Pdl all'accordo di governo. Un accordo - questo è il punto che ci preme sottolineare - che non ha forzato i contraenti sul programma, bensì sulle mini-identità costruite in questo ventennio. Che non sono più le identità legate ad una visione del mondo, dato che da vent'anni ormai non vi sono più (almeno nelle istituzioni) comunisti, socialisti, cattolici, liberali o fascisti, ma solo ed esclusivamente «berlusconiani ed antiberlusconiani».

Ed infatti, mentre non risulta che Letta abbia trovato difficoltà sul programma, ha invece dovuto disegnare la sua compagine in modo e maniera da non urtare più del necessario le suscettibilità dei principali contraenti dell'accordo che ha portato alla formazione del suo governo. Suscettibilità che riguardano l'immagine non la sostanza delle questioni che il nuovo esecutivo si troverà ad affrontare.

I 101 piddini dal volto ignoto non sono dunque dei «traditori» del loro partito. Certo, dal punto di vista etico sono assai peggio, ed in un partito degno di questo nome avrebbero già ricevuto un trattamento adeguato. Ma dal punto di vista sostanziale essi sono il vero Pd, dato che hanno intrapreso l'unico percorso realistico per continuare la politica sulla quale il Pd è nato, che non è diversa da quella messa in atto da Monti dal novembre 2011.

Questo non significa negare i reali travagli presenti nel corpaccione piddino. I travagli ci sono perché la crisi arriva anche lì e le vecchie certezze fanno acqua da tutte le parti. Ma quello che qui va sottolineato è l'assenza di ogni discussione tra Pd e Pdl sulla linea complessiva del futuro governo, ad esempio sui nodi dell'Europa e del Fiscal Compact. Mai prova sulla piena compatibilità ed intercambiabilità sistemica di questi due partiti fu più evidente.

Tornando a bomba, che bestia è allora il governo Letta? Rispondere a questa domanda iniziale è facile e difficile al tempo stesso. E' facile, come ho cercato di argomentare, riguardo alla natura oligarchica di questo governo. E' difficile riguardo alla sua forza e alla sua durata.

L'imposizione del duo Napolitano-Letta, consumatasi nel breve volgere di una settimana, è la fedele rappresentazione dello stato attuale del blocco dominante. Un blocco con un consenso sociale alquanto ridotto, ma ancora capace di fare quadrato, di asserragliarsi nella fortezza, attaccare l'opposizione, prepararsi se necessario alla repressione, rimandando a tempi migliori la riconquista di un'egemonia ormai traballante.

Chi ha voluto a tutti i costi la nascita del governo Letta non ha certo in mente un governicchio, ma un governo sufficientemente forte per svolgere i compiti di cui sopra. Che poi il nipote del ben noto zio ci riesca è tutto un altro discorso. La composizione del governo, con personale politico di seconda e terza fascia, lascia capire quanti dubbi vi siano fra gli stessi artefici dell'operazione.

Ma il vero nodo è un altro, e si chiama Europa. A leggere la stampa questi giorni è tutta una riduzione di tasse: via l'Imu sulla prima casa, rinvio della Tares e dell'aumento dell'Iva, abbassamento delle tasse per le imprese, qualche contentino perfino sull'Irpef dei lavoratori. La premessa di tutto ciò è che l'Europa in qualche modo «allenterà i vincoli». Lo chiede lo stesso Fmi, lo accenna qualche voce a Bruxelles. Ma da Berlino, per ora, sono arrivati solo dei no.

La verità comunque è nota. Qualche allentamento è possibile, come dimostra il caso spagnolo, ma niente che possa davvero cambiare i problemi che hanno portato l'Italia dentro una recessione senza sbocchi. E i dati evidenziati recentemente anche dal Def (sui quali torneremo in un prossimo articolo), specie se letti in rapporto ai futuri vincoli imposti dal Fiscal Compact, non lasciano scampo.

Al governo antipopolare dell'ultras eurista Enrico Letta non resterà altro che continuare la politica della svalutazione interna: taglio ai salari, alle pensioni, a quel che resta del welfare, aumento programmato della disoccupazione e della precarietà. Un programma sufficiente forse per restare alla guida di un governo asserragliato nella fortezza, non certo per riconquistare il consenso perduto.

Detto questo è detto tutto, con delle conseguenze che ci riguardano da vicino. Perché se il dominio non garantisce l'egemonia al blocco dominante, dall'altra parte (cioè dalla nostra) il dissenso non garantisce alcuna alternativa. Qui non si tratta tanto di allargare ancora il dissenso e l'opposizione. Questo andrà fatto, ma sapendo che tutto ciò ha senso solo lavorando alla costruzione di una strategia per la sollevazione e per il potere. Una strategia che richiede un programma, una linea politica, un'organizzazione, un gruppo dirigente forte e determinato. Inutile, perché noto, ricordare qui quante di queste condizioni siano oggi assenti. Utilissimo invece inquadrare i termini reali del problema.

Pagando prezzi non piccoli, il blocco dominante prova ora a compattarsi su Letta. Neppure lorsignori sono certi del successo dell'operazione, meno che mai della durata del governo. Ma ci provano, dato che i loro interessi di classe e di casta non sono negoziabili. E' vero, si sono chiusi nella fortezza, ma non è detto che sia una fortezza facilmente espugnabile. Guai ad immaginare una resistenza di impronta sindacale. Essa verrebbe facilmente sconfitta. Guai a pensare ad una strategia meramente rivendicazionista. Essa non troverebbe neppure il necessario sostegno sociale. La difesa degli interessi materiali del popolo lavoratore va immediatamente legata alla prospettiva della sollevazione.

Tutto ciò richiede un'accelerazione all'altezza di quella che sul fronte opposto ha portato alla nascita del governo Letta. Almeno in questo le lezioni che ci vengono dal blocco dominante hanno una loro indiscutibile utilità.  

sabato 27 aprile 2013

BAMBOCCIONI A 5 STELLE di votante M5S

27 aprile. Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa angosciata lettera riguardo all'incontro tra la delegazione parlamentare di M5S e il Presidente del consiglio incaricato Enrico Letta. Quanto può durare un movimento con degli eletti tanto inadeguati?

Per fortuna che Grillo c'è

«Sono uno degli otto e più milioni di elettori di cinque stelle. Non sono un attivista ma quello che chiamereste "compagno". Ho votato M5S, come penso la grande maggioranza, senza turarmi il naso, convinto che fosse il solo "voto utile", cioè la sola maniera per manifestare la mia rabbia contro la casta politica, la mia volontà di cambiare. Non sono pentito. 
Il modo in cui si sta concludendo la vicenda della formazione del governo, dimostra che la casta è obbligata a fare blocco, allo scopo di guadagnare tempo e di sgretolare M5S.
Ma sono francamente sconcertato dalla linea di condotta del Movimento, in particolare riguardo alla questione del Presidente della Repubblica e l'atteggiamento verso il tentativo di Enrico Letta di formare il governo.

Sono rimasto sconcertato dalle cosiddette "Quirinarie".  Il solo fatto che hanno votato poco più della metà degli iscritti M5S aventi diritto —dove stavano gli altri? perché non hanno votato se bastava solo un clic sulla tastiera?— demolisce non solo il mito del web come strumento di democrazia partecipata (un'stensione più alta di quella nelle elezioni nazionali), ma anche il discorso dell'uno che vale uno. Se la metà non ha votato uno è infatti valso almeno due.

Ma il fatto che mi ha fatto accapponare la pelle è che politicanti che hanno sulle spalle il disastro in cui versa l'Italia, mi riferisco a Prodi, alla Bonino, a Caselli, siano stati non solo scelti come candidati dalla base, ma abbiamo ottenuto una parte non così irrilevante dei consensi dei militanti cinque stelle. Se questa rosa di candidati ci da la misura delle opinioni in voga nel M5S, c'è di che preoccuparsi. Come si fa a dire che occorre mandarli tutti a casa e poi indicarne alcuni addirittura come possibili presidenti?


Le braccia mi sono cascate quando ho assistito all'incontro tra Enrico Letta e la delegazione parlamentare di M5S guidata da Crini e dalla Lombardi. I rappresentanti di M5S sono stati patetici, quasi commoventi. Bastava poco per mettere Letta con le spalle al muro, bastava ricordargli le responsabilità che  ha avuto, come dirigente del Pd, nell'aver sostenuto il macellaio Monti; bastava ricordargli i danni fatti dai governi Prodi in cui era esponenete di spicco; bastava rinfacciargli il suo liberismo. Bastava affermare, con la necessaria fermezza, che M5S non può scendere ad alcun compromesso con partiti che sono al servizio dei predoni delle banche ligi alle direttive degli eurocrati che stanno portando interi popoli alla fame. Bastava incalzarlo ripetendo quello che Grillo ha più volte proposto in campagna elettorale: fine dell'austerità, cancellare il debito, nazionalizzare le banche, ripudiare i trattati europei, riguadagnare la sovranità nazionale. Bastava denunciare il "golpetto" del reincarico a Napolitano e il governo "bunga bunga" e dell'inciucio. Gli italiani avrebbero facilmente capito, dalle risposte di Letta, di che pasta è fatto e che profilo avrà il nascituro governo.

Invece abbiamo assistito solo a dei tristissimi balbettii, a dei no confusi e detti a mezza bocca, a farfugliamenti impolitici che hanno fatto sembrare il Letta un gigante. Provavo pena e rabbia allo stesso tempo. Se queste mezze tacche sono quelli che in Parlamento dovranno fare un'opposizione intransigente siamo messi proprio male. C'è voluto Grillo il giorno dopo a rimettere le cose a posto.

Ma fino a quando questa commedia potrà durare? Quanto può reggere un movimento in cui il grande capo deve intervenire per correggere, un giorno sì e l'altro pure, i suoi goffi nanetti in Parlamento? Può durare poco. Non so chi disse che il socialismo avrebbe reso capaci anche le cuoche di governare. La prova evidente che questo è utopistico l'abbiamo sotto gli occhi. Possiamo andare fieri di aver spedito dei "comuni cittadini" in Parlamento, talmente comuni che rischiano di essere fatti a pezzi, se non faranno prima il salto della quaglia».



venerdì 26 aprile 2013

VI SPIEGO PERCHÉ HANNO SCELTO ME di Enrico Letta

26 aprile. Chi è Enrico Letta? Esponente dell'ala più liberista del Pd; membro del Gruppo Bilderberg, della Trilateral e dell'Aspen institute. Il signore che mentre il “governo dei tecnici maciullava gli italiani affermava: «Noi sosteniamo l’esperienza Monti: sta facendo bene al Paese e all’Europa». E quindi: «La nostra proposta è quella di un governo moderati/progressisti che porti avanti l’agenda Monti, ma che sia una proposta che ridia credibilità e forza alla politica». 
Convinto atlantista; fanatico difensore dell'euro; deciso paladino della privatizzazioni dei beni pubblici e della liberalizzazione del mercato del lavoro; partigiano delle politiche europe di austerità. Uno che in sintonia con Monti ha sostenuto che la crisi è una straordinaria opportunità. Lo scrive nel suo libro del 2009 Costruire una cattedrale: perché l'Italia deve tormare a pensare in grande. Ne aabbiamo estrapolato un brano davvero illuminante.

«Lo Stato deve creare le condizioni per un mercato competitivo»


di Enrico Letta


«Con la scelta dell'unificazione monetaria la politica, in Europa, ha fatto quello che, a rigore, ci si aspetta da essa: indirizzare, attraverso assunzioni di responsabilità anche molto coraggiose, i processi economici. Non entrare direttamente nel mercato, ma porre le condizioni affinché esso funzioni e sia competitivo. In questo caso il rapporto tra Stato (inteso in senso lato come istituzioni) e mercato si è rivelato, quindi, virtuoso. E virtuoso può esserlo ogni qualvolta si ha riguardo per i ruoli di ciascuno, senza invasioni di campo o ingerenze indebite. In Italia, per esempio, la graduale apertura dei mercati, promossa negli ultimi quindici anni proprio da scelte di politica economica lungimiranti, può essere considerato un caso di corretto andamento delle relazioni tra Stato e mercato.

Molte delle liberalizzazioni avviate a partire dagli anni Novanta - per quanto ancora incomplete - hanno prodotto risultati duraturi sul funzionamento del nostro sistema economico e sociale. Tornare indietro sarebbe un errore imperdonabile. Norme come quella prevista nell'articolo 23 bis della manovra triennale approvata dal governo Berlusconi, che di fatto, su spinta della Lega, frena il processo di liberalizzazione nei servizi pubblici locali, rappresentano un segnale preoccupante. La conservazione contro la volontà di riforma, la tutela degli interessi costituiti contro la concorrenza: è un film già visto nel nostro Paese. Ricordo bene, per esempio, quanto nella scorsa legislatura il presidente Prodi e il ministro Linda Lanzillotta abbiano lavorato per una buona riforma dei servizi pubblici locali, scontrandosi puntualmente con le resistenze della sinistra più radicale che pure faceva parte della coalizione di governo. Oggi la Lega prende il testimone da Rifondazione Comunista e dal Pdci per spingersi addirittura oltre, ostacolando ogni tentativo di apertura.


Come se le liberalizzazioni non avessero portato in questi anni grandi vantaggi per i consumatori.
Questi ultimi sono, ormai, al centro delle dinamiche economiche, interlocutori delle istituzioni, soggetti in grado di "fare opinione" e stimolare l'azione legislativa. Vantaggi innegabili sono poi venuti alle imprese che, indotte giocoforza a fare i conti con la concorrenza, si sono viste costrette ad accantonare le facili rendite monopoliste e a provare a diventare efficienti, unica condizione per competere con successo nel mercato nazionale e soprattutto in quelli esteri. 


Le liberalizzazioni hanno avuto, e hanno, bisogno di una guida politica e di profonda determinazione da parte di chi le governa. Nel nostro Paese il primo impulso alla concorrenza è arrivato dall'esterno, dall'Unione Europea, in particolare attraverso l'impegno di commissari come Karel Van Miert e Mario Monti. Ma questo stimolo è stato recepito e portato avanti in Italia con grande convinzione soprattutto dal centrosinistra. Dal primo governo Prodi anzitutto, grazie alla fermezza del presidente del Consiglio e del ministro Bersani che, allora e anche in seguito, hanno tenuto duro nonostante tutte le critiche e gli ostacoli incontrati.

Un percorso cui ho partecipato a partire dal 1999 quando assunsi la guida del ministero dell'Industria e mi trovai a gestire il dossier sulla riforma del mercato del gas. Ebbi allora la fortuna di avere accanto a me, in qualità di consigliere, un caro amico e un grande esperto di politica energetica, il compianto Fabio Gobbo. Insieme a lui, e a un pool di giovani componenti della segreteria tecnica, elaborammo un impianto di riforma che fu oggetto di molte resistenze. L'appoggio convinto del premier Massimo D'Alema fu determinante, così come il sostegno di Giuliano Amato che, da ministro del Tesoro, svolgeva il delicato ruolo di azionista dell'Eni. Scalfire il monopolio dell'Eni non fu facile, anche perché l'Eni non era, e non è, un carrozzone pubblico come altre partecipazioni statali. Era, ed è, probabilmente la migliore esperienza di impresa pubblica italiana dai tempi di Enrico Mattei. Tuttavia, la riforma avrebbe potuto migliorare le sue performance e la sua proiezione internazionale grazie a un'apertura effettiva del mercato interno. Così poi è avvenuto e, pur con molte frenate e rallentamenti, il processo si è sviluppato negli anni e ha portato i suoi benefici a consumatori e imprese. Ancora pochi rispetto alle aspettative e alle necessità degli uni e delle altre, ma comunque in linea con le migliori esperienze allora realizzate in Europa.

 
Spesso - a partire dai viaggio che, nel 2004, ho fatto con lo stesso Bersani per conoscere meglio la realtà dei distretti italiani - mi è capitato di discutere con gli imprenditori della ceramica nell'area di Sassuolo, e con molti loro colleghi di altre realtà industriali del Paese, dei costi insopportabili dell'energia che gravano sull'impresa e che stridono con il livello di servizi reputati generalmente non all'altezza. Non a caso, è lo stesso malessere che lamentano da anni i consumatori. Il percorso di apertura deve essere portato a compimento.
Tuttavia, quella riforma, inquadrata in una prospettiva a lungo termine, è stata utile per rompere un monopolio apparentemente inattaccabile e creare le condizioni affinché, dieci anni dopo, fosse possibile realizzare i cosiddetti "ri-gassificatori", termine che, per non alimentare paure ingiustificate nei cittadini, dovremmo sostituire con l'espressione, mutuata dall'inglese, "terminali a metano". Del resto, anche quella dell'approvvigionamento energetico, come tutte le questioni che hanno a che fare con il futuro di questo Paese, è una grande cattedrale da costruire. Servono anni, attenzione all'interesse pubblico, responsabilità condivise. In questi mesi sono state compiute scelte, a mio avviso, ragionevoli sul rilancio del nucleare in Italia. Si tratta, in prospettiva, di un veicolo di sviluppo economico e di risparmio energetico. Oltreché di uno strumento formidabile di promozione dell'innovazione e della ricerca applicata. Ricerca che in Italia vanta ancora punte di eccellenza riconosciute in tutto il mondo.


Abbandonare il nucleare fu un errore. Scommettere sul gas, a partire dagli anni Novanta, è stata, invece, una decisione positiva. Su questa scelta abbiamo investito moltissimo ed è evidente che il gas resterà centrale, tra le nostre fonti di approvvigionamento, per almeno un decennio. Rimane un problema di diversificazione delle fonti. L'Italia ha una dipendenza dai fossili che non ha eguali per le economie avanzate. Che fare? Dialogo con i Paesi fornitori, in primo luogo, al fine di garantire forniture a condizioni accettabili. E poi - pur consci del fatto che le fonti fossili saranno necessarie per molti anni ancora - diversificazione delle fonti: energie rinnovabili - soprattutto per il Sud - e, tornando a quanto si diceva, terminali di metano funzionanti, con i quali l'Italia potrebbe finalmente superare una situazione di difficoltà strutturale nel campo dei consumi energetici e porsi al livello di altre realtà europee e internazionali.


Ad ogni modo, non solo per la politica energetica, l'opinione comune è che sia urgente superare gli sterili nazionalismi. Non lasciamo che, con il passare del tempo, questa opinione si appanni. Cerchiamo, invece, di fare il possibile per integrare le istituzioni statali, armonizzare le politiche, promuovere la creazione di organismi europei e multilaterali per vigilare, prevenire, regolare soprattutto la finanza e i commerci, e per gestire le disuguaglianze. Di certo c'è che con la crisi siamo condannati al cambiamento, non mi stanco di ripeterlo. Il movimento non è più un optional: o si individuano soluzioni innovative, e si abbandonano prassi e regole che hanno condotto al più imponente disastro economico dalla Seconda guerra mondiale, o sarà la fine.


Quanto è successo è anche frutto di un disallineamento tra le speranze generate dalla caduta del Muro di Berlino e dalla ventilata "fine della storia e dei conflitti" - per usare un luogo comune fin troppo abusato - e la vita concreta delle persone. Nelle società occidentali il benessere, individuale e collettivo, è aumentato per decenni in modo graduale ma costante, parallelamente al diffondersi di un clima di sicurezze e di aspettative crescenti. Senza salti improvvisi, ma con una progressione impressionante. Poi, più o meno all'improvviso, questa sicurezza è stata messa sottosopra dagli effetti concreti della globalizzazione. Alla gradualità si sono sostituiti sussulti e oscillazioni: grandi picchi, precipizi inattesi.


Così la gente ha conosciuto di nuovo il timore e poi la paura vera e propria. Entrambi acuiti dal fatto che dalla crescita mondiale hanno iniziato a trarre vantaggio centinaia e centinaia di milioni di persone prima escluse dalla lista dei beneficiari dei prodigi del mercato: in Europa orientale, in India, in Cina, oppure migrando entro gli stessi confini del mondo occidentale. Le certezze della classe media delle società opulente si sono frantumate sotto il peso di trasformazioni inattese. Alcune positive, come la possibilità per tutti di comunicare o di volare sempre più a basso costo. Altre neutre o negative, accomunate, però, da un dato: il venir meno di un clima, rassicurante, di stabilità.


La politica - lo Stato, gli Stati - non è stata in grado di arginare questo disagio. La prima reazione, la più istintiva, è stata quella di rinchiudersi nel localismo. Il senso di estraneità globale si è tradotto in una ricerca incessante di identità, intesa come rifugio dall'insicurezza. Questa ricerca, tenuta viva dalla perdita di riferimenti, è entrata nel Dna delle classi medie. Avevamo messo in conto sviluppo e benessere. Ci siamo ritrovati alle prese con precarietà e iniquità. O almeno questa è la sensazione prevalente.


Sensazione, in verità, non del tutto pertinente nel nostro Paese. Di recente mi è capitato di soffermarmi su un dato a mio avviso illuminante, che delinea con efficacia lo stato di smarrimento in cui versa una parte della società italiana. Si tratta della "percezione della precarietà" avvertita nel Paese e analizzata in uno studio condotto dal direttore della Fondazione Nord Est, Daniele Marini, per "Il Sole-24 Ore". A fronte di una quota molto alta, pari al 73,5% dei totale dei lavoratori, di impiego a tempo indeterminato, ben il 72,1% degli italiani considera il lavoro "precario". Semplificando, tre quarti dei lavoratori vivono una situazione che precaria oggettivamente non è e ancora tre quarti individuano proprio nella precarietà il problema più grave dell'occupazione. E questo spesso a dispetto dell'evidenza: ovvero nonostante un contratto fisso nel cassetto o un percorso concreto verso la stabilizzazione professionale alle spalle.


I conti non tornano. La verità è che lavoro instabile, mancanza di tutele, iniquità costituiscono un dramma - oltreché il limite più pesante di un sistema di welfare interamente da riformare - soprattutto per una porzione sempre più consistente di giovani italiani, che nel momento dell'ingresso nel mercato del lavoro, sono esposti a una maggiore flessibilità delle forme contrattuali rispetto alle altre generazioni. Ma il dramma è esasperato dall'interiorizzazione, collettiva e intergenerazionale, del disagio. La precarietà è nella nostra testa, prima ancora che nella nostra vita quotidiana».

[Questo brano è un estratto del libro Costruire una cattedrale: perché l'Italia deve tornare a pensare in grande di Enrico Letta, Mondadori, 2009]

giovedì 25 aprile 2013

L'EURO FALLIRÀ! 1992: LA PROFEZIA di Wynne Godley

25 aprile 2013. In questo articolo dell'ottobe 1992, il keyensiano Godley (nella foto) spiega come e perché la moneta unica sarebbe schiantata. Dovrebbero leggerlo attentamente quelli che si ostinano, anche a sinistra, a difendere l'euro. Il loro mantra metafisico è: "L'Unione europea, per quanto edificata su Maastricht, è un'idea di sinistra, mentre gli stati nazionali sono di destra". Una madornale sciocchezza ideologica. Dopo avere abbandonato Marx hanno gettato nel cesso pure gli insegnamenti di Keynes. Hanno ormai poco tempo per farsi una ripassata, se non della critica marxiana, dei fondamentali dell'economia politica.

Perché l'euro non funzionerà
Senza sovranità monetaria, perderemo quella politica. Senza la guida politica statale il mercato porta nel baratro


di Wynne Godley*

«Molte persone in tutta Europa si sono improvvisamente rese conto che non sanno quasi nulla del Trattato di Maastricht mentre giustamente avvertono che potrebbe fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha indotto Jacques Delors a fare una dichiarazione secondo la quale le opinioni della gente comune dovrebbero in futuro essere più ascoltate. Avrebbe potuto pensarci prima.

Anche se ho sostenuto il passaggio verso l’integrazione politica in Europa, credo che le proposte di Maastricht così come sono presentano gravi carenze e anche che la discussione pubblica su di esse sia stata curiosamente impoverita. [...]

L’idea centrale del trattato di Maastricht è che i paesi della Comunità europea devono muoversi verso l’unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma che cosa rimane della politica economica? Dato che il trattato non propone nuove istituzioni diverse da una banca europea, i suoi promotori devono supporre che nulla di più sia necessario. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero sistemi capaci di autoregolarsi, che non abbiano bisogno di alcuna gestione.

Sono spinto alla conclusione che tale punto di vista – cioè che le economie sono organismi che si raddrizzano da soli e che non hanno in nessun caso necessità di una gestione – ha effettivamente determinano il modo in cui è stato costruito il trattato di Maastricht. Si tratta di una versione rozza ed estrema del punto di vista che da qualche tempo ha costituito la convinzione prevalente in Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone): che i governi non sono in grado di raggiungere uno qualsiasi dei tradizionali obiettivi di economia politica, come la crescita e la piena occupazione, e pertanto non dovrebbero neppure provarci.

Tutto ciò che può legittimamente essere fatto, secondo questa visione, è quello di controllare l’offerta di moneta e il pareggio del bilancio. E’ stato necessario un gruppo in gran parte composto da banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente è stata l’unica istituzione sovranazionale necessaria per gestire un’Europa integrata e sovranazionale.

Ma c’è molto di più. In primo luogo va sottolineato che la creazione di una moneta unica nella Comunità Europea dovrebbe porre fine alla sovranità delle sue nazioni componenti e alla loro autonomia di intervento sulle questioni di maggior interesse. Come l’onorevole Tim Congdon ha sostenuto in modo molto convincente, il potere di emettere la propria moneta, di fare movimentazioni sulla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza nazionale. Se un paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente locale o colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di denaro, mentre altri metodi di ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione centrale. Né si possono modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ più di istruzione qui, un po’ meno infrastrutture lì. Penso che quando Jacques Delors pone l’accento sul principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che [gli stati membri dell'Unione europea] saranno autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti di quanto si possa aver precedentemente supposto. Forse ci lascerà tenere i cetrioli, dopo tutto. Che grande affare!

Permettetemi di esprimere una visione diversa. Penso che il governo centrale di uno Stato sovrano deve essere costantemente impegnato a determinare il livello ottimale complessivo dei servizi pubblici, l’onere fiscale complessivo corretto, la corretta allocazione della spesa totale tra bisogni concorrenti, nonché la giusta distribuzione del peso della tassazione. Esso deve anche determinare la misura in cui ogni divario tra spesa e imposte viene finanziato prelevando dalla banca centrale e quanto è finanziato mediante un prestito, e a quali condizioni. Il modo in cui i governi decidono su tutti questi (e alcuni altri) problemi, e la qualità della leadership che si possono dispiegare, determineranno, in interazione con le decisioni degli individui, delle aziende e degli stranieri, cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. [Il comportamento del governo] inoltre influenzerà profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza non solo tra individui, ma tra intere regioni, assistendo, si spera, quelle colpite negativamente dai cambiamenti strutturali. [...]

Elenco tutto questo non per suggerire che la sovranità non deve essere ceduta in nome della nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i governi nazionali rinunciano a tutte queste funzioni esse devono semplicemente essere assunte da qualche altra autorità. La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste un qualunque progetto analogo, in termini comunitari, di governo centrale. Semplicemente ci dovrebbe essere un sistema di istituzioni che soddisfi a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi centrali dei singoli paesi membri.

La contropartita della rinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le nazioni componenti vengono incorporate in una federazione a cui è affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o stato, come è meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare tutte quelle funzioni in relazione ai suoi membri e al mondo esterno, che ho brevemente sopra indicate.

Consideriamo due esempi importanti di ciò che uno stato federale, responsabile di un bilancio federale, dovrebbe fare.

I Paesi europei sono al momento bloccati in una grave recessione. Come stanno le cose, in particolare le economie di Stati Uniti e Giappone sono anch’esse vacillanti, è molto difficile dire quando un significativo recupero avrà luogo. Le implicazioni politiche di questo stanno diventando spaventose. Tuttavia, l’interdipendenza delle economie europee è già così grande che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto proprio, perché ogni paese che cercasse di espandere l’economia con le sue sole forze incontrerebbe presto un vincolo nella bilancia dei pagamenti. La situazione attuale grida ad alta voce l’esigenza di un rilancio coordinato, ma non esistono né le istituzioni né un quadro concordato di pensiero che porterà a questo risultato, ovviamente, desiderabile. Si deve francamente riconoscere che se la depressione dovesse davvero prendere una svolta seria per il peggio – ad esempio, se il tasso di disoccupazione tornasse al 20-25 per cento degli anni Trenta – i singoli paesi, prima o poi, eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare l’intero percorso verso l’integrazione un disastro, e ristabilirebbero dei controlli sui cambi e misure protezionistiche – un’economia da assedio se vogliamo chiamarla così. Ciò equivarrebbe a ripercorre il periodo tra le due guerre.

Se ci fosse una unione economica e monetaria, in cui il potere di agire in modo indipendente fosse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ del genere, di cui si sente così urgente bisogno, potrebbe essere effettuata solo da un governo federale europeo. Senza una tale istituzione, l’Unione monetaria impedirebbe un’azione efficace da parte dei singoli paesi e metterebbe il nulla al suo posto.

Un altro ruolo importante che ogni governo centrale deve svolgere è quello di stendere una rete di sicurezza per il sostentamento delle regioni componenti che sono in difficoltà per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di qualche cambiamento demografico negativo per l’economia. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno se ne accorga, perché esistono standard comuni dei servizi pubblici (per esempio, la sanità, l’istruzione, le pensioni, i sussidi di disoccupazione) e un comune (si spera, progressivo) sistema di imposizione fiscale. Di conseguenza, se una regione soffre un insolito declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in favore di essa. Come caso estremo, una regione che non producesse nulla non morirebbe di fame perché riceverebbe le pensioni, le indennità di disoccupazione e il reddito dei dipendenti pubblici.

Cosa succede se un intero paese – un potenziale ‘regione’ in una comunità pienamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di un Stato sovrano, può svalutare la propria moneta. Si può quindi operare con successo verso la piena occupazione se la gente accetta il taglio necessario dei redditi reali [cioè l'inflazione, ndr]. Con una unione economica e monetaria, questo ricorso è ovviamente escluso, e la sua prospettiva è davvero grave, salvo accordi su bilanci federali che svolgano un ruolo redistributivo. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall che è stato pubblicato nel 1977, ci deve essere uno scambio tra la rinuncia alla possibilità di svalutare e la redistribuzione fiscale. Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente suggerito che l’Unione monetaria, abolendo la bilancia dei pagamenti nella sua forma attuale, abolirebbe il problema, dove esiste, di una persistente incapacità di competere con successo sui mercati mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in un articolo importante nel Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente sbagliato. Se un paese o regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa fermare un processo di declino cumulativo e terminale che conduce, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame.

Simpatizzo con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere dal treno dell’Unione monetaria. Simpatizzo anche con coloro che cercano l’integrazione sotto la giurisdizione di una sorta di Costituzione federale, con un bilancio federale molto più grande di quello dell’[attuale] bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che sono favorevoli all’unione economica e monetaria senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani terrificati alle parole “federale” o “federalismo”. Questa è la posizione adottata oggi dal Governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte alla discussione pubblica».


* Fonte: keynesblog
** L'articolo originale: Maastricht and All That

mercoledì 24 aprile 2013

ENRICO LETTA (CATTIVO PRESAGIO) di Piemme

24 aprile. Napolitano ha dunque dato l'incarico a Enrico Letta (di Gianni Nipote). Nessuna sopresa. Personalità gradita a Berlusconi, che ha fatto valere il suo potere d'interdizione. Quel che più conta è che egli è un politico gradito al mondo della grande finanza, italiana e globale. Eurista di ferro.

Sarà "governicchio" o "governissimo"? Alcuni ritengono che siccome la sua vita sarà breve, sarà di fatto un "governicchio". Metterà qualche pezza all'abito sdrucito della seconda repubblica per riportare gli italiani al voto, al massimo entro un anno. Sarebbe quindi la durata il criterio decisivo di giudizio. Dissento. Anche il governo Monti è durato poco ma, con le sue misure draconiane, ha scavato un solco profondo, indelebile nella vita di questo paese. 

Chiediamoci: quali sono i desiderata delle potenti seppur malandate forze che stanno dietro al nascituro governo? Primo: rimettere in careggiata il sistema bipolare, fracassato delle elezioni di febbraio (quindi attaccare e indebolire il M5S). Secondo: sottrarre ulteriori poteri alle Assemblee elettive per consegnarli al Presidente della Repubblica. Terzo: serrare, sulla scia del governo Monti, i ceppi euristi a cui il paese è incatenato.

Che questi tre obbiettivi saranno raggiunti non è certo, dipende da diversi fattori. Dalla forza dell'opposizione politica e sociale (in buona sostanza dal fatto che M5S non si limiti a fare melina in Parlamento), dalla quiete sui mercati finanziari, dalla possibilità di porre fine alla guerra intestina tra cosche partitiche, tra notabili e dignitari —la composizione del Consiglio dei ministri ci dirà molte cose.

Ma che vengano raggiunti o meno i tre obbiettivi di cui sopra poco c'entra con quelle che sono le intenzioni reali delle forze che tanto hanno premuto per le "larghe intese". Queste forze chiedono una vera e propria legislatura costituente, chiedono un "governissimo".

In quest'ottica un ammorbidimento delle misure d'austerità, anche l'alzare la voce con gli euro-crati e la Merkel, sono possibili, perché funzionali a calmare la rabbia sociale crescente e a evitare il pericolo maggiore, l'esplosione della conflittualità sociale. Di pace sociale Lorisgnori hanno bisogno come il pane per realizzare il loro disegno che è tutto politico: seppellire la Costituzione repubblicana per passare da una Repubblica parlamentare ad un presidenziale. Da un presidenzialismo incipiente ad uno dispiegato.

Napolitano Bonaparte, a cui un Parlamento di zimbelli ha devoluto i suoi poteri sostanziali, è non slo il demiurgo, ma il garante e la sentinella di questo passaggio verso la Terza Repubblica.

Ne discende che la battaglia a cui le opposizioni saranno chiamate è quella per bloccare questa insidiosa manovra strategica. Una lotta che dividerà il paese in due parti contrapposte, tra il fronte democratico e quello reazionario. Sarà una lotta senza esclusione di colpi. Se le opposizioni sapranno legare la questione democratica a quella sociale, ed entrambi alla questione della sovranità nazionale, se sapranno dare vita ad un ampio fronte popolare (M5S incluso), la battaglia potrà essere vinta.



martedì 23 aprile 2013

IL SANGUE DELLA GRECIA di Daniela Di Marco

23 aprile. Agghiacciante! Sapevamo che la Grecia è l'agnello sacrificale dato in pasto al Moloch, all'€uro-Germania. Il governo Samaras ha approvato a febbraio una legge che prevede il carcere per i debitori dello Stato. Essendo i penitenziari già sovraffollati veranno allestiti appositi CAMPI DI CONCENTRAMENTO.

Seisàchtheia
di Daniela di Marco

Leggo sul Corriere della sera
«Cinquemila euro di debiti con lo Stato? Il rischio è la reclusione fino a un anno. Il nuovo piano del governo greco punta a recuperare fondi e rinchiudere gli evasori in caserme trasformate ad hoc con «condizioni più umane». Ad annunciarlo il vice ministro alla Giustizia Kostas Karagkounis durante un'audizione in Parlamento. L'idea è appunto trasformare un sito per rinchiudere gli insolventi. Si parla di un campo di addestramento militare nella provincia di Attica. La legge, entrata in vigore a febbraio, parla chiaro: se entro quattro mesi chi ha debiti superiori a cinquemila euro non ripaga, rischia il carcere fino a un anno. Per diecimila euro almeno sei mesi e così via. Il cittadino può anche pensare di rateizzare, ma se salta un pagamento, ecco che può finire nel campo. Certo, separati da chi ha commesso crimini più efferati, ma pur sempre in una sorta di prigione. Cambiare la destinazione d'uso di un campo è stato necessario, si legge nelle dichiarazioni, a causa del sovraffollamento nelle carceri. E per trattare «meglio» i debitori».
Alla pazzia criminale non c'è limite. "Non paghi le tasse, ti interno in un campo di concentramento!". Questo avviene oggi dentro l'Unione europea. Una misura che ricorda la guerra e il nazismo. Una guerra dichiarata ad un popolo, senza carri armati e senza bombardamenti, ma non meno devastante. Un nazismo reale sotto le mentite spoglie della democrazia.

Quanto accade oggi è peggio che nella Grecia antica. Nel VI secolo avanti Cristo gli ateniesi che non erano in grado di onorare i loro debiti venivano ridotti in schiavitù. La storia ci dice che Solone (638a.C.- 558a.C.), legislatore, abolì la schiavitù per debiti. Quello storico provedimento venne chiamato σεισάχϑεια (seisàchtheia). Luciano Canfora, nel suo libro Il mondo di Atene (Laterza) sostiene giustamente che con quella misura Solone evitò la guerra civile.

Il tema della cancellazione dei debiti, sottolinea ancora Canfora,  è ricorrente nell'antichità: «Vi hanno fatto ricorso tutti i riformatori, quanti professavano idee democratiche. Ve n'è un cenno anche nell'invocazione a "rimettere i debiti" contenuta nel Padre Nostro. Dopotutto si tratta di un modo per redistribuire il reddito». Una patrimoniale negativa potremmo chiamarla.


Solone
Oggi di questi riformatori democratici non c'è traccia. I governanti non sentono ragioni. Pur di tenere in vita l'euro, morto che cammina, sono disposti a tutto, anche a dissanguare e imprigionare i propri popoli. Le stesse sinistre, che dovrebbero rappresentare gli interessi della povera gente e le aspirazioni democratiche, si ergono a paladine dell'euro.

Le idee di un default programmato, della cancellazione del debito pubblico (i creditori sappiamo chi sono: i vampiri della grande finanza globale), di un'uscita dall'euro; non le vogliono prendere nemmeno in considerazione.

Sinistre complici dei criminali!

Non c'è alcun Solone in vista. Se i popoli vittime dell'euro-dittatura non si solleveranno, temo proprio che la guerra civile sarà prima o poi inevitabile.
 

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