venerdì 30 giugno 2017

I MILIONARI AUMENTANO MA I POVERI DI PIÙ

[30 giugno 2017 ]

Il Sole 24 Ore del  14 giugno ci informava sui risultati di una ricerca dell'autorevole The Boston Consulting Group sulla concentrazione di ricchezza nel mondo e la crescita del divario tra classi sociale ricche e povere—vedi più sotto.
Agghiacciante. Così, d'istinto, ti vengono in mente gli SPARI SOPRA di Vasco Rossi
Nell'articolo, di un cinismo disarmante (istruisce i milionari a diventare ancor più ricchi)  la Lucilla Incorvati ci informa che negli ultimi decenni e malgrado la crisi (anzi, grazie ad essa) molti ricchi sono diventati ricchissimi, tant'è che in Italia ci sono ben 307mila famiglie con patrimoni finanziari milionari. Ci dice anche che  queste famiglie, nel 2021, saranno 433mila.


Per contraltare l'Istat ci informa oltre 4 milioni e mezzo di italiani vivono oggi in condizioni di povertà assoluta. I dati raccolti riguardano l’anno compreso tra il 2014 e il 2015, e attestano la soglia di povertà assoluta al 6,1% delle famiglie italiane, per un totale di 4 milioni 598 mila individui.
En passant: il Pil procapite italiano fa -24% rispetto a quello della Germania. 
Un bel cadeau dell'Unione europea!


In Italia 307mila famiglie con patrimoni milionari

La crescita della ricchezza finanziaria privata nel mondo non si arresta: nel 2016 la corsa di Wall Street e degli altri principali mercati ha portato il valore totale di azioni, obbligazioni e depositi alla cifra record di 166.500 miliardi di dollari. Rispetto al 2015 si tratta di un incremento del 5,3%. Nel 2021 dovrebbe raggiungere i 223.100 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 6%, derivante in parti uguali dalla creazione di nuova ricchezza e dalla valorizzazione degli asset. Sono queste le principali evidenze del 17° rapporto sulla ricchezza di The Boston Consulting Group.
L ’aumento della ricchezza è avvenuto a tutte le latitudini, ma ancora una volta è stata l’area Asia-Pacifico a segnare lo sviluppo più rapido: nel 2016 l’incremento è stato del 9,5% (è strato del 12% nel periodo 2011-2015) in grado di prospettare a breve uno storico sorpasso ai danni dell’Europa occidentale come secondo mercato più ricco. L’area con Stati Uniti, Canada e Messico ha segnato un incremento robusto, +4,5%, superiore a quello dell’Europa occidentale (+3,2%). Per queste due regioni, così come per America Latina e Medio Oriente e Africa, l’andamento nel 2016 è stato migliore del 2015. A livello globale il numero di famiglie milionarie (chi ha ricchezze finanziarie superiori al milione di dollari) è cresciuto in un anno del 7%, arrivando a quota circa 18 milioni. Ovvero l’1% delle famiglie, che detengono il 45% della ricchezza totale. 

L’Italia, che mantiene da anni la 10° posizione al mondo, conta 307mila famiglie milionarie nelle cui mani c’è il 20,9% della ricchezza finanziaria italiana.

Nel 2021 saranno 433mila, l’1,6% del totale mondiale e con uno stock pari al 23,9%. «Se la ricchezza finanziaria globale è cresciuta del 5,3% e, in Europa del 3,2%, l’Italia ha registrato una leggera battuta d’arresto dovuta principalmente alla riduzione di valore delle partecipazioni azionarie dirette e degli investimenti obbligazionari che avevano come controparte istituzioni finanziarie» – ricorda Edoardo Palmisani, principal di BCG. 

Le dinamiche della ricchezza finanziaria sono sempre legate a due fattori: la nuova ricchezza generata e la performance del portafoglio. Il report evidenzia come la creazione di nuova ricchezza sia rimasta pressoché costante, mentre sono stati gli investimenti diretti azionari ed obbligazionari a generare una performance negativa, seppur parzialmente controbilanciati da fondi comuni e gestioni patrimoniali. Nei prossimi 5 anni ci aspettiamo che la ricchezza italiana riprenda a crescere, superando i 5 trilioni di dollari dagli attuali 4,5 trilioni. A trainare saranno nuovamente i soggetti che hanno più di un milione di ricchezza e che cresceranno a tassi del 5/6%. Il portafoglio delle famiglie continuerà a ribilanciarsi verso le azionari a scapito di obbligazioni, cash e depositi per raggiungere un’allocazione più efficiente, in linea a quanto già accade in Europa o in America». 

Per chi si occupa di wealth management lo studio evidenzia la necessità di adottare un nuovo approccio al digitale per recuperare in competitività e focalizzarsi sui momenti chiave per il cliente, offrendo i servizi giusti al momento giusto.

PERCHÉ ALLEARSI ORA (in risposta a Stefano D'Andrea) di Ernesto Pertini

[ 30 giugno 2017 ]

Ieri Stefano D'Andrea (FSI) ha detto la sua sulla questione dell'unità dei gruppi politici della cosiddetta "area sovranista" anti-Ue. Per il D'Andrea l'eventuale alleanza può solo assumere la forma di un cartello elettorale, e comunque non adesso, ma solo in vista delle elezioni del 2023. Posizione quantomeno singolare. Gli risponde Ernesto Pertini, del Quarto Polo




Abbiamo letto con interesse l'articolo di Stefano D'Andrea che sostiene non sia necessaria, al momento, un'alleanza delle forze sovraniste. La sua prospettiva é quella di candidarsi non alle prossime elezioni, ma a quelle del 2022 o 2023.
Dissentiamo profondamente da questa strategia.
Non é il momento di aspettare.
Il nemico é forte, é vero, ma é stato indebolito dalla Brexit, dall'elezione di Trump e dalla vittoria del No al Referendum Costituzionale. É tuttavia abbastanza forte da schiacciare sul nascere i nostri tentativi. Siamo sicuri che nel 2022 ci sarà ancora la libertà attuale di parlare e diffondere le proprie idee sui Social Network? Siamo sicuri che non ci saranno un esercito e una polizia europee pronti a stroncare le idee dissidenti? Basterebbe fare qualche attentato o atto vandalico a nome dei "sovranisti" per demonizzarli e renderli fuorilegge. Siamo sicuri che esisterà ancora un articolo 50 per uscire dalla UE? Siamo sicuri che l'Italia non avrà richiesto l'arrivo del MES, legandosi ancora di più mani e piedi sotto il gioco della UE? Siamo sicuri che, nel frattempo, non scoppierá una vera e propria Terza Guerra Mondiale, di cui si vedono già le avvisaglie?
D'Andrea si propone di ricostruire sulle macerie, ma siamo sicuri che avremo un'Italia da ricostruire e non un piccolo stato federato all'interno dei nuovi Stati Uniti d'Europa?


I pericoli sono tanti, come si vede, e la guerra é già qui e va combattuta. E la si combatte meglio uniti che sparsi ognuno sulle proprie montagne e bunker. Hanno forse aspettato l'arrivo degli USA i nostri partigiani? No, hanno unito le forze a disposizione e coordinato da subito i piccoli gruppi in un Comitato di Liberazione Nazionale. E l'hanno fatto subito dopo l'armistizio, non dopo aver visto quanta forza avevano i singoli gruppi. Perché uniti si ha piú forza e combattendo separati si viene piú facilmente annientati (non per per niente si ripete continuamente il motto divide et impera).


E d'altra parte proprio FSI ha dimostrato di saper dialogare con le altre associazioni, con i vari incontri citati anche nell'articolo di Stefano D'Andrea. Perché non proseguire per dialogo e farne un'alleanza e un coordinamento? Perché rinunciare fin da subito a presentarsi alle prossime politiche?

L'aumento abnorme delle astensioni e la crescita della percentuale di "altri" nei sondaggi dimostrano che c'é una domanda di alternativa politica. C'é un vuoto politico e i vuoti politici, la storia insegna, vengono rapidamente riempiti. Vogliamo che li riempia un nuovo fascismo di cui giá si vedono le prime avvisaglie?

Cosa farà FSI se non otterrà i risultati sperati alle Regionali? Cosa farà se le elezioni, dopo il 2018, non saranno ne 2022 ma ben prima, magari giá nel 2020 o anche prima? Aspetterà il 2050?
Non é vero nemmeno che il coordinamento si puó fare solo in vista delle elezioni: ci si puó ad esempio dare una mano per avere visibilità, come giá lo si fa invitandosi reciprocamente ai convegni, ma lo si fa meglio se si marcia uniti con un'unico simbolo. D'Andrea parte dalla prospettiva di tenere separati i vari gruppi, ma nulla vieta di affiancare al simbolo del singolo gruppo quello di un'alleanza che mostri che ci sono collegamenti con altri gruppi. La visibilità che si ottiene é maggiore come maggiore é la visibilità della forza percepita.

D'Andrea ne fa anche una questione di merito: vuole vedere quali formazioni riescono ad ottenere risutati per scegliere, tra queste, quelle che devono realizzare il coordinamento. Ma é proprio ora che le forze sono piccole, prese singolarmente, che ha più senso ed é più facile il coordinamento, perché nessuna puó dirsi egemone o indispensabile. Come detto prima, la guerra é già in corso e per combatterla al meglio occorre un coordinamento, altrimenti si rischia di pestarsi i piedi a vicenda. Unendosi si possono unire le reti territoriali, coprendo così l'Italia in un modo che le singole associazioni non potrebbero fare. Avrebbe invece senso farsi concorrenza sui territori dove ci sono associazioni già forti, solo per portare prestigio alla propria?

Non pretendiamo di essere noi i capi del coordinamento, quello che stiamo facendo é tentare di far dialogare i vari gruppi, al di là dei singoli incontri sporadici e cercare di dare un metodo di lavoro attraverso la Confederazione per la Sovranità Popolare, che non é soggetto politico e non lo vuole diventare. Vuole essere un soggetto terzo che faccia il lavoro culturale e sociale di cui c'é comunque bisogno e che si fa meglio tenendo separata l'attività politica. Si propone di elaborare soluzioni e processi di selezione dei candidati in maniera indipendente per offrirli alle forze politiche.

Col quarto polo intendiamo invece promuovere una coalizione politica tra le forze Sovraniste, di Sinistra, di Centro ed ex-M5S con cui siamo in contatto. Pensiamo che mettendo insieme queste forze pur diverse sull'esempio del Comitato di Liberazione Nazionale e della Costituente si possa raggiungere l'obbiettivo comune di liberare l'Italia dai poteri forti e salvarla dal declino a cui questi la stanno destinando. Pensiamo di farlo partendo dal punto comune dell'attuazione della Costituzione, che é migliorabile ma che contiene in sé i valori ed il progetto che hanno già fatto ripartire l'Italia nel dopoguerra. Non pretendiamo di avere tutte le risposte, né promettiamo facili vittorie. Possiamo promettere solo, come Churchill, sangue, fatica sudore e lacrime. Ma riteniamo che questi siano spesi meglio combattendo insieme, con un coordinamento, e non sottraendoci alle battaglie per paura che le nostre singole forze non siano sufficienti, ma unendo le forze e cercando di aumentarle insieme fino a che saranno sufficienti.
Possiamo e dobbiamo combattere insieme, possiamo e dobbiamo dare un'alternativa ai milioni di Italiani che non vanno a votare o che votano turandosi il naso. In caso contrario cosa proporremo a chi ci vota a livello locale? Il non voto? I problemi locali derivano dai problemi nazionali e mondiali, non possiamo pretendere di risolverli lavorando solo a livello locale.

Non pretendiamo di dire "venite con noi", diciamo invece "uniamoci", costruiamo insieme le regole e il programma di questa alleanza.
Alcuni di noi vengono dall'esperienza del M5S e sanno bene come ci voglia tempo per far crescere una nuova forza politica. Sanno cosa vuol dire partire dal 3% in qualche comune, senza soldi e senza visibilitá (e anche Grillo all'inizio ne dava una relativa, visto che era spesso boicottato dai giornali). Ma sappiamo che con la strategia giusta, le giuste mosse e gli exploit dati dal lavoro e dalla fortuna si possono raggiungere buoni risultati. Sappiamo anche che stavolta dobbiamo agire senza un capo carismatico già famoso che ci dà la visibilità, ma sappiamo che abbiamo la nostra esperienza alle spalle e che stavolta potremo fare alleanze.

Le esperienze di altri Stati ci confortano. Guardiamo a Farage che é riuscito a raggiungere la Brexit senza avere nemmeno la maggioranza in Parlamento. A Trump che ha perseguito la sua strategia, senza cedere di fronte ai sondaggi che lo davano perdente, ma credendo nella sottile possibilità che, se i vari se si fossero avverati, avrebbe vinto. Ed ha vinto. Guardiamo inoltre a Podemos, che riuscì ad ottenere un exploit alle Europee in breve tempo e ricordiamo che le europee sono nel 2019 e che anche in Italia ci sono stati in passato exploit, ad esempio di Italia dei Valori e dei Radicali. Guardiamo a Mélenchon che é riuscito ad ottenere buoni risultati in Francia aumentando in poco tempo i suoi consensi, pur venendo da un lavoro di anni (ma non viene da un lavoro di anni anche FSI come anche altri gruppi?). Guardiamo a Corbyn che ha sovvertito, con una buona campagna elettorale, i sondaggi che lo davano per spacciato.

Come si vede tutti questi esempi dimostrano che mai come ora l'elettorato é fluido. Come scive Tonguessy a commento di questo articolo siamo in una fase non lineare della politica, dove il giusto battito d'ali puó cambiare radicalmente la situazione. Il tempo per unirsi e tentare di ottenere il consenso é dunque questo, perché non possiamo sapere come si evolverà la situazione nei prossimi anni e, rimanendo ai margini, potremmo essere schiacciati o tagliati fuori dagli eventi. Insieme possiamo avere la forza, la visibilità e la credibilità che da soli non potremmo avere. Abbiamo il dovere di provarci.

giovedì 29 giugno 2017

REDDITO CONTRO LAVORO? NO GRAZIE! di Giovanna Vertova

[ 30 giugno 2017 ]

Quando si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri). Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica fosse dovuta alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in una situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato.
Ciascuna di queste giustificazioni mostrano come il RdB sia una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdB vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Effettivamente, misure come il RdB possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.
Le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB variano sulla base di come è effettivamente esplicitata la proposta: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che chiamo incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto [2], il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland [3]. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce anche il RdB. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.
In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.
Va anche ricordato che, nella realtà, non è mai stato introdotto un RdB incompatibile [4], ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli individui posseggano le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro: poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.
Esiste, inoltre, una problematica questione di genere. Alcune femministe sostengono che il RdB potrebbe rappresentare la remunerazione del lavoro per la riproduzione, internalizzando così la variabile di genere. Personalmente, valgono qui le stesse obiezioni che alcune femministe sollevarono negli anni ’70 circa il salario al lavoro domestico. Il RdB congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della forza-lavoro né per la produzione né per la riproduzione. Si creerà, anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro per la riproduzione ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro. Un RdB come risposta alla “questione di genere” dimostra molto chiaramente come questa proposta, presa singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.
Non credo quindi che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si propone il RdB come l’unica soluzione dell’insicurezza sociale, mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Non capisco, inoltre, perché il RdB venga proposto in contrapposizione ad altre rivendicazioni. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante.
Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. Ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta la legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito, accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.


Note
1. Fonte: www.basicincome.org/basic-income
2. L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento della teoria del valore, si fa grande confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo del lavoro che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo: se è vero che il consumatore oggi partecipa, più che in passato, alla definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008); ed il capitolo “The “Fragment on the Machines” and theGrundrisse. The Workerist Reading in Question”, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the Twenty-First Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, 2014, pp. 345-367).
3. La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (1984, Einaudi, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero.” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu immiserita.”
4. I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.

MACRON (ANCHE LUI) ANDRÀ A SBATTERE CONTRO IL SOVRANISMO TEDESCO di Piemme

[ 29 giugno 2017 ]

Com'è noto il mandato di Mario Draghi come Presidente della Bce scade nell'ottobre 2019. E' noto che i banchieri tedeschi non hanno mai davvero digerito la sua politica monetaria "espansiva" (Quantitative easing), politica che senza dubbio ha evitato il crack del sistema bancario dell'Unione (checché se ne dica a Berlino quello tedesco incluso), quindi la stessa moneta unica. Critiche a Draghi che sono state reiterate anche di recente
Il presidente della DeutscheBundesbank Jens Weidmann [nella foto] ha ad esempio affermato a Berlino il 29 maggio scorso:
«Solo per pochi la Coca Cola può fare parte di un regime alimentare sano e la caffeina, al posto di uno stile di vita salutare, alla fine non fa che aumentare i rischi. Per lo stimolo monetario vale lo stesso: può essere usato, come la caffeina, per ‘risvegliare’ l’economia ma un consumo eccessivo porta a rischi e a effetti collaterali nel tempo...Anche la Coca-Cola, come le politiche di sostegno monetario, vengono usate come rimedi per tutti i mali: oltre al suo vero compito, che è quello di mantenere stabili i prezzi, la politica monetaria dovrebbe rafforzare la crescita, abbassare il tasso di disoccupazione, garantire la stabilita’ del sistema finanziario e, assieme, anche rendimenti adeguati ai cittadini».
Al netto delle analogie gastronomiche, un distillato chimico della dogmatica monetarista teutonica (stabilità dei prezzi come stella polare), un esempio del rapporto patologico che in Germania si ha col denaro.E non è un segreto che i tedeschi esigeranno che dopo Draghi, la Bce sia guidata da un loro alfiere. Non c'è da fare chissà quali divinazioni per sapere chi potrebbe essere questo alfiere: si tratta appunto dell'attuale presidente della banca centrale tedesca Jens Weidmann.  Un avvicendamento, quello di Weidmann alla Bce, che esprime bene quello che non può essere altrimenti chiamato che come sovranismo tedesco, della volontà di potenza di quella grande borghesia.

Una volontà di potenza che potrebbe addirittura azzoppare l'asse carolingio con la Francia del super-europeista Macron. Alcuni segnali non vanno infatti sottovalutati. Appena eletto Macron si è recato a Berlino, indicando quanto stia a cuore alla cupola bancocratica francese il sodalizio con quello tedesco. Riguardo alle traballanti sorti della Ue Macron ha ribadito alla Merkel quel che aveva detto in campagna elettorale, riassumibile in tre punti: una politica di bilancio europea, un ministro europeo della finanze, la mutualizzazione del debito.
La Merkel gli ha sibillinamente risposto: "Ho fiducia in Macron. Egli sa quel che deve fare". Ma poi, chi ha orecchie per intendere intenda, ha aggiunto: "Il sostegno tedesco non può rimpiazzare le riforme che si debbono fare in Francia". Tradotto significa: "la Francia rientri presto nei parametri deficit su Pil, e compia quei tagli radicali alla sua ingente spesa pubblica. Il resto alle calende greche".

Ci è andato ancor più duro proprio il falco Weidmann.
Il 25 giugno scorso il numero uno della BundesBank ha rilasciato una dichiarazione al giornale tedesco Welt am Sonntag in cui senza peli sulla lingua dice a Macron che di mutualizzare i debiti dei paesi dell'eurozona non se ne parla nemmeno, ed insiste anzi nel chiedere la fine del Quantitative easing e, come detto dalla Merkel, che Parigi metta a posto il suo bilancio pubblico in forte disavanzo.
Ce ne da conto anche LA STAMPA del 26 giugno che titola "Lo schiaffo di Weidmann: nessun regalo a Macron". 
Weidmann ha in particolare affermato:
«Una garanzia comune sui debiti pubblici sarebbe la strategia sbagliata, di fronte a sovranità nazionali: questo ingrandirebbe il problema dell'Europa, non lo risolverebbe. Una mutualizzazione comune può avvenire alla fine di un processo che porti a un'unione fiscale, se i diritti nazionali sulle decisioni sostanziali fossero passati a livello europeo. Io però non vedo la disponibilità a fare questo. I Paesi che vogliono la garanzia comune insistono altrettanto sulla sovranità nazionale, come tutti gli altri».
Messaggio chiarissimo: La Germania è disposta a correre in soccorso ai "paesi periferici, solo a patto che cedano (alla Germania, s'intende) gli ultimi scampoli di sovranità statuale e nazionale. 

Chissà se se lo metteranno in testa i tanti sinistrati che invocano "più Europa". Quelli che senza magari volerlo fanno da truppe cammellate al "partito tedesco" della grande borghesia italiana.

QUALE ALLEANZA DEI SOVRANISTI? di Stefano D'Andrea

[ 29 giugno 2017 ]

Su Appello al popolo è comparso ieri un intervento di Stefano D'Andrea [nella foto], presidente del Fronte Sovranista Italiano dal titolo "Le questioni del partito, dell’alleanza, del coordinamento e del dialogo tra associazioni sovraniste".
Pubblichiamo volentieri quanto scrive l'amico D'Andrea perché, al netto delle differenze di merito e di metodo, suggerisce una riflessione su un tema che ci sta molto a cuore: è possibile l'agognata alleanza tra le forze politiche patriottiche e sovraniste? E se sì su che basi? per che cosa? Con che forme? E quali i tempi? 
E siccome siamo in tema ci corre l'obbligo di segnalare che un primo tentativo di alleanza è costituito dalla Confederazione per la Liberazione Nazionale. Ci auguriamo che con questo intervento si apra finalmente un dibattito onesto, che coinvolga almeno gli esponenti più autorevoli della costellazione delle forze patriottiche, democratiche e  socialiste.


"Le questioni del partito, dell’alleanza, del coordinamento e del dialogo tra associazioni sovraniste"



  1. La fine dell’eurozona non è “imminente”, come molti commentatori sovranisti, anche autorevoli, tra i quali Bagnai e Barra Caracciolo, hanno erroneamente a lungo creduto: ci attende una lunga lotta di liberazione. Quindi c’è il tempo per costituire l’alleanza sovranista.
  2. Ho scritto alleanza sovranista e non il partito sovranista, perché è da presuntuosi credere che una associazione, politica o divulgativa, o un blog o un indistinto gruppo di persone possano fare tutto da soli.
  3. In questa fase, quindi, bisogna impegnarsi per promuovere, far crescere e rendere solide le frazioni della futura alleanza.
  4. Ne esistono parecchie, a carattere politico o divulgativo: il FSI, Riscossa, ALI, Interesse nazionale, Senso Comune, A/simmetrie, Me-mmt, altre associazioni nate dalla divulgazione della MMT, Confederazione per la Librazione nazionale.
  5. Altre associazioni sono ancora fuori dall’ambito sovranista: Risorgimento Socialista ha al proprio interno correnti differenti, una delle quali certamente non ha alcuna intenzione di porre fine all’Unione europea e con essa all’euro; Eurostop, invece, vuole una “moneta mediterranea” e dunque è estraneo, per ora, all’area politica sovranista.
  6. Nell’ottica dell’alleanza sovranista, intellettuali come Barra Caracciolo, Fusaro, Rinaldi e Galloni vengono in considerazione soltanto come membri di associazioni, rispettivamente A/simmetrie e Interesse Nazionale, i primi due, ALI i secondi. Altri, come Lidia Undiemi e Scardovelli, verranno in considerazione se e quando avranno creato un’apposita associazione sovranista. Aleph, l’associazione promossa da Scardovelli, non ci sembra una associazione sovranista: molti iscritti a quest’ultima associazione saranno pure sovranisti ma, essendo nata ad altri fini, non è detto che tutti gli iscritti siano sovranisti (se sbaglio, sono felice di sbagliare).
  7. La pluralità di associazioni e piccoli partiti non è un male, anzi è un gran bene. In politica non contano soltanto le idee (che, nel nostro caso, sono simili ma non identiche). Contano anche, da un lato, l’organizzazione e l’azione (come ci si organizza e come si agisce), dall’altro, gli uomini (che tipo di militanti si cercano e si aggregano: ciò dipende molto dall’organizzazione e dall’azione). Solo un fanatico-ingenuo aderisce ad una associazione della quale condivide il 90% del programma e sulla quale, tuttavia, nutra sfiducia, in ragione della capacità organizzativa e del tipo di azione e degli uomini, se ve n’è un’altra della quale condivide l’80 o il 70% del programma ma apprezza tantissimo organizzazione, modalità di azione e uomini. D’altra parte, Gramsci ha scritto una pagina immensa sul carattere molecolare o atomistico che assume il movimento che dà vita a un partito. Non abbiamo la presunzione di smentirlo.
  8. L’alleanza si fa in vista delle elezioni. Le alleanze tra partiti sono sempre alleanze elettorali o meglio pre-elettorali e poi eventualmente (ma non è il nostro caso) di governo (le alleanze delle opposizioni durano lo spazio di un mattino). Non sono mai esistite alleanze a prescindere dalle elezioni. Un’alleanza al di fuori di una scadenza elettorale è un non senso: allearsi a che fine, se non per partecipare ad elezioni? D’altra parte, associazioni e partiti che sono per ora alternativi, perché cercano di aggregare militanti sovranisti, distinguendosi per idee, (in parte) linguaggio, tipo di uomini, organizzazione e azione, prima dell’alleanza elettorale sono naturalmente in legittima competizione. Come possono piccoli partiti diversi compiere assieme azioni di militanza volte a cercare ed aggregare nuovi militanti? Espongono più simboli? Chiariscono ai cittadini nei quali si imbattono quali sono le differenze che corrono fra i diversi partiti? È da deficienti soltanto pensarlo. Non c’è niente di male in questa legittima competizione (a parte che si tratta di un fatto logico e naturale incontestabile) e nessun danno ne deriva per la causa sovranista. Ovvio che ogni associazione e ogni partito avrà il suo blog, le sue pagine facebook, i suoi simboli. Tutti i sovranisti hanno interesse a far sì che nell’alleanza elettorale abbiano maggior peso coloro che avranno dimostrato di avere più capacità di azione, una migliore organizzazione e di saper attrarre un maggior numero di militanti che siano presenti sulle strade e organizzino eventi sul territorio.
  9. L’alleanza tra le forze sovraniste si presenterà alle elezioni nazionali del 2023. Per non restare buggerati da elezioni anticipate, conviene ipotizzare che si voti un anno prima, nel febbraio 2022. Ciò significa che tutto (simbolo e nome dell’alleanza, candidati, progetto di azione, organizzazione e comitato direttivo dell’alleanza) dovrà essere pronto (almeno) un anno prima, quindi nel febbraio del 2021: un nuovo soggetto politico ha bisogno di almeno un anno di “campagna elettorale” e non può presentarsi alle elezioni nazionali senza prima essersi fatto conoscere a sufficienza. Se le elezioni non saranno anticipate, l’alleanza sovranista potrà svolgere due anni di “campagna elettorale”. Pertanto, nel febbraio del 2020 bisognerà cominciare a costruire l’alleanza (un anno di lavoro appare necessario).
  10. È possibile che alleanze (eventualmente parziali) delle forze sovraniste si presentino in alcune competizioni regionali. Noi abbiamo preso l’iniziativa per le regionali abruzzesi del 2019 e il 15 luglio a Pescara presenteremo il nostro progetto a sei invitati appartenenti ad altre associazioni sovraniste (ad altri invitati che non potranno essere presenti, illustreremo il progetto via mail). Per le altre elezioni regionali abbiamo considerato che esistono alcuni problemi assenti in Abruzzo, forse superabili organizzando più progetti regionali assieme. Noi per ora non crediamo di essere capaci di organizzare un simile progetto “pluriregionale” ma parteciperemo a riunioni per discuterne (soltanto se le riunioni saranno promosse da associazioni e vedranno invitate soltanto associazioni: i singoli o soli o individualisti o narcisi devono restare rigorosamente fuori) e vaglieremo i progetti che eventualmente ci verranno sottoposti.
  11. Il progetto per le regionali abruzzesi servirà a dimostrare se i sovranisti sono in grado di superare soglie di sbarramento, quanti militanti servono per avere una sufficiente presenza sul territorio e in che misura l’uso accorto dei social, l’elaborazione di un programma diverso e migliore di quello degli avversari, e il valore umano di candidati e militanti possano supplire la mancanza di denaro (l’obiettivo è e sarà anche nel 2023 soltanto quello di superare le soglie di sbarramento ed entrare in Parlamento per parlare al popolo: il resto dopo verrà). È chiaro che se riusciremo in Abruzzo (nelle regionali servono 29 candidati, nelle politiche nazionali soltanto 22, dunque per noi le regionali sono più difficili delle nazionali; e il voto è quasi politico-ideologico, non totalmente politico-ideologico come alle nazionali), avremo dimostrato che utilizzando la stessa strategia e le stesse tecniche che avremo utilizzato e con uomini corrispondenti per numero e valore (sia come militanti che come candidati), è possibile entrare nel Parlamento nazionale.
  12. Coordinamento è termine privo di significato. Che significa? Le forze politiche nazionali, attuali o del passato, si sono mai coordinate? Forse il termine può designare l’attività che sarà necessario svolgere dal febbraio 2020 per costruire l’alleanza. Ma ciò comporta che fino al febbraio 2020, quando si dovrà iniziare a svolgere l’azione volta a costruire l’alleanza, non è necessario (non ha senso) coordinarsi: ci si coordina in vista dell’alleanza. Siamo nella fase in cui le forze che sono nate devono cercare di dimostrare a se stesse, prima che agli altri, di essere vitali, ossia di non morire nell’immediato, di essere solide, ossia di non subire scissioni, di saper crescere per qualità e quantità dei militanti, di sapersi radicare in più regioni, di saper costruire gruppi significativi in alcune città. Spesso l’invito al coordinamento nasce da sparuti gruppi o da singoli, che addirittura si auto-attribuiscono il ruolo di “promotori” del coordinamento. I primi, incapaci di agire nella vita reale e di aggregare persone ulteriori rispetto al gruppetto di autori o commentatori di un blog o di una pagina facebook, vorrebbero avere  un qualche ruolo organizzativo o direttivo e perciò, invece di pensare a dimostrare a se stessi che riescono a costituire e a rendere vitale, solida e a far crescere una frazione dell’alleanza, forse consapevoli di non esserne capaci, invece di aderire umilmente ad una delle circa dieci associazioni esistenti, vogliono presuntuosamente darsi un ruolo che non hanno dimostrato di meritare: chi non avrà dimostrato di saper costruire e gestire bene una frazione (o addirittura avrà fallito), non dovrà partecipare alla costruzione e alla direzione dell’alleanza: ciò è un oggettivo, palese, elementare interesse di tutti i sovranisti. Compiti difficili e di grande responsabilità potranno essere affidati soltanto a chi avrà dimostrato di saper affrontare e risolvere compiti di media difficoltà. Diversamente, tutto il lavoro che stiamo svolgendo, noi e tutte le altre associazioni sovraniste, andrebbe certamente in fumo. I secondi, ossia i singoli che si auto-attribuiscono il ruolo di “promotori” del coordinamento sono addirittura casi da sottoporre a psicologi. Si tratta di ego ipertrofici e di presuntuosi che scrivendo sul loro blog o sulla pagina facebook credono di scrivere quotidianamente articoli di fondo su riviste sovraniste: si collocano su un piedistallo, senza aver mai dimostrato nulla sul piano della organizzazione e della capacità di stare in una associazione, e danno lezioni o suggerimenti, sovente, addirittura, criticando con acredine. Di essi è bene che si interessino gli psicologi o gli psicanalisti, non i sovranisti. I sovranisti devono soltanto sopportare l’onere di avere “vicino” questi infantili egocentrici sui social, sempre che, stanchi, a un certo punto non preferiscano bannarli.
  13. Il dialogo è invece importante: tanto è insignificante il termine coordinamento, quanto è importante il concetto di dialogo. Noi militanti del Fronte Sovranista Italiano, in questi cinque anni, abbiamo invitato come relatori a nostre iniziative Galloni (a Bologna nel 2013), Fusaro e Barra Caracciolo (a Rieti nel 2014), Rinaldi (a Pavia nel 2015), Pasquinelli (a Pescara nell’assemblea nazionale del 2013), Mimmo Porcaro e Francesco Toscano (a Roma nell’assemblea del 2014), Aldo Barba, Massimo Pivetti e Cesare Salvi a Roma nel 2016, Cesaratto (a Rieti nel 2016). In occasione dell’assemblea fondativa del FSI, nel giugno 2016, abbiamo invitato, soltanto per i saluti (e perché ci conoscessero), sei studiosi sovranisti, che tuttavia non avevano possibilità di essere presenti. E quest’anno abbiamo invitato a Pescara, per chiedere la partecipazione o l’aiuto al progetto per le elezioni regionali abruzzesi, che sarà presentato il 15 luglio, Alberto Bagnai (A/Simmetrie), Carlo Formenti (a titolo individuale, perché non abbiamo mai avuto occasione di conoscerlo), Ferdinando Pastore (Risorgimento Socialista), Giorgio Cremaschi (Eurostop), Marco Mori (Riscossa), Mario Volpi (ME-mmt), Maurizio Gustinicchi (ALI), Diego Fusaro (Interesse Nazionale), Roberto Sajeva (Giovani Socialisti), Thomas Fazi (Senso Comune) e Ugo Boghetta (Confederazione per la Liberazione Nazionale). Siamo dunque passati definitivamente dal dialogo con alcuni studiosi a quello con le associazioni. Negli stessi anni, non abbiamo ricevuto nemmeno la metà e anzi nemmeno un terzo degli inviti che abbiamo rivolto. Ma non è un problema. Il dialogo c’è anche se una sola delle parti prende l’iniziativa. Tuttavia, ciò dimostra che l’accusa che ci viene rivolta di non dialogare è ridicola e talvolta fondata su pura paranoia (quale altra associazione in questi anni ha invitato tanti altri sovranisti o euroscettici quanti ne abbiamo invitati noi? Forse soltanto A/Simmetrie), talaltra sulla confusione tra dialogo e coordinamento (sopra è stato chiarito che non abbiamo alcuna fiducia nelle iniziative di coordinamento, che sono altro dal dialogo). D’altra parte, va pure considerato che non si dialoga o meglio non si cerca il dialogo con tutti, bensì soltanto con chi si stima. Evidentemente noi stimiamo gli altri più di quanto parecchi di loro stimino noi. Nemmeno questo è un problema: per un verso, chi non ci stima si sbaglia o peggio, ma speriamo non sia così, non è in grado di apprezzarci; per altro verso, la nostra stima non è eterna.
ADDENDUM. Quindi per concludere: partito no; impegno a creare, far crescere e consolidare le frazioni si; alleanza si ma in vista delle elezioni, nel rispetto dei tempi indicati; coordinamento no, se non nel senso di attività volta a dar vita all’alleanza, secondo i tempi indicati; dialogo si; alleanze regionali, anche parziali, si, se si conviene che esistono  forze per superare lo sbarramento e possibilità di superare altri ostacoli

mercoledì 28 giugno 2017

"DE MAGISTRIS: UN GESTO MOLTO GRAVE" di Svitlana Grugorciùk*

[ 28 giugno 2017 ]

Il 15 giugno scorso, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, si è incontrato, amichevolmente ed in pompa magna, con l'ambasciatore ucraino Yevgen Perelygin [vedi foto accanto].
Evento a dir poco inquietante, che ha lasciato di stucco la comunità antifascista russo-ucraina partenopea. Capiamo l'amarezza. De Magistris in questo caso si è allineato con la posizione filo- ucraina del governo italiano della UE e della NATO. Quanto i legami con l'Italia siano considerati strategici da Kiev ce lo spiega proprio l'ambasciatore ucraino.

«La battuta sembra ironica ma forse a questo sta puntando Yevgen Perelygin, ambasciatore ucraino attualmente impegnato in un "tour mediatico" che lo ha portato a rilasciare diverse dichiarazioni ed a stringere molte mani. Portandolo il 15 giugno ad un incontro con il sindaco ex magistrato di Napoli De Magistris. 

La stretta di mano, lo scambio di promesse amichevoli di collaborazione, il progetto di un accordo internazionale economico segna nella sua tappa partenopea un punto focale. Napoli è una città dove la presenza della comunità ucraina rappresenta una realtà numerosa e consolidata nella sua integrazione. Del resto il popolo napoletano fu definito dalla storia "russo nell'anima". 

Ma russi si sa è sinonimo di libertà di pensiero ma anche di capacità di analisi ed è per questo che dal nostro punto di vista, come donne ucraine antifasciste che denunciamo da 3 anni il terribile stato in cui versa il popolo ucraino per colpa della politica nazionalista di Kiev l'incontro proprio non lo abbiamo digerito. 

Noi di strette di mano del genere non ne vogliamo e siamo determinate nel nostro obbiettivo di lotta contro il governo golpista "amico della banca mondiale" di Petro Poroshenko. Dopo l'incontro proprio con De Magistris abbiamo da subito messo alla luce, non solo l'aspetto politico commerciale della manovra, magistralmente architettato dall'ambasciata ucraina ma vogliamo evidenziare come il 27 maggio lo stesso ambasciatore rilasciava dichiarazioni di come è conveniente vendere in Ucraina merce italiana senza troppe tasse favorendo una sorta di speculazione occidentali nel buon nome dei rapporti tra popoli. 

Praticamente uno sfruttamento con il sorriso in bocca e gli occhi chiusi per non guardare i crimini contro l'umanità perpetrati dal governo di Kiev contro l'intera popolazione. Ma cosa volete che sia una guerra di fronte alla possibilità di un mercato libero e magari globale. Ed è davanti a questa vetrina mediatica che il primo cittadino di Napoli non ha resistito pur di apparire su qualche giornale e far parlare di se. Le elezioni del resto sono passate, quindi e il tempo porta risultati diversi dalla apparenza precedente, è si sa la pubblicità è l'anima del commercio. Noi invece abbiamo chiesto un incontro urgente, visto che questo incontro ufficiale con i rappresentanti di Kiev non rispecchia per nulla i valori repubblicani e antifascisti della costituzione italiana. Ci stranisce che un magistrato, autorevole come De Magistris, abbia proprio omesso questo aspetto. Sarà un caso o un semplice vuoto di memoria?

Noi, dal canto nostro, non abbiamo nessuna intenzione di far cadere nel dimenticatoio la nostra richiesta di incontro con il sindaco De Magistris che su questa questione dovrà darci qualcosa di più di una semplice risposta.

Proponiamo una riunione pubblica dove attraverso un confronto aperto vogliamo confrontarci sul tema: "Napoli e il razzismo". 

Per evitare che il dissenso verso Salvini e Renzi sia solo un effetto pilotato che oggi svanisce davanti al gesto molto più grave fatto dal sindaco De Magistris».

* Svitlana Grugorciùk è portavoce del Comitato antifascista ucraino per il Donbass di Napoli

martedì 27 giugno 2017

L’INGANNO DELLA SOVRANITÀ EUROPEA: UNA RISPOSTA A TOMASO MONTANARI di Ferdinando Pastore

Tomaso Montanari
[ 27 giugno ]
Ferdinando Pastore fa parte della direzione di Risorgimento Socialista, come del centro dirigente della Confederazione per la Liberazione Nazionale.

Nell’era del pensiero unico neo-liberista, nella quale appare inverosimile mutare le politiche d’indirizzo economico, presentate alla collettività come necessarie, ineluttabili, dettate dal pilota automatico, si rincorrono, in Italia, tentativi di ricostruzione della sinistra, che di continuo sono progettati mediante appelli alla società civile al fine di attuare la Costituzione italiana.

COSTITUZIONE, SOCIETA’ CIVILE, CORPI INTERMEDI

Già gli appelli alla società civile, entità astratta e non corrispondente ad alcun blocco sociale, sembrano in aperta contraddizione con lo spirito costituzionale, dato che essi si servono delle medesime caratteristiche di spoliticizzazione della società che sono insite nella prassi neo-liberista: il primato dell’economia sulla politica, il mito del privato rispetto al pubblico, la denazionalizzazione della moneta, lo smantellamento dello stato sociale, l’annientamento dei corpi intermedi ormai chiusi in apparati ermetici ma al contempo innocui e congeniali per il mantenimento dello status quo.
Difatti, proprio quando ci si rivolge alla società civile, si lascia intendere che i diritti sociali, ispirati a principi solidali e non mercantilistici,  un tempo protetti dallo Stato, hanno perso la loro funzione politica: quella di dare rappresentanza allo scontro sociale.
Essi sono così sostituiti dagli interessi dei gruppi di pressione, che ancora organizzati in apparati burocratici, in realtà, perseguono fini privati, tendenti al mero profitto economico e trovano terreno fertile nel momento in cui il neo-liberismo ha operato una mutazione sostanziale dell’individuo ormai ridotto a imprenditore di sé stesso e a eterno soggetto desiderante, non più in grado di prendere coscienza delle condizioni di sfruttamento nei rapporti produttivi e di alienazione nella propria condizione esistenziale (1).
Con la conseguenza di silenziare lo scontro sociale e far paventare, continuamente, l’idea che esista una società civile portatrice di istanze omogenee e inter-classiste, che, causa la loro inconsistenza, saranno preordinate dal mercato(2).
Il richiamo alla Costituzione, poi, è ancora più marcato a seguito della vittoria al Referendum Costituzionale  del fronte del No, al cui interno la sinistra ha giocato un ruolo del tutto marginale e ininfluente, soprattutto se si pensa all’incapacità di darne un significato politico in linea di continuità con i risultati della Brexit o del Referendum greco di qualche anno fa. Esso è stato ridotto a semplice contestazione alla figura di Matteo Renzi.
Proprio la sottovalutazione della questione sociale e la tendenza a non identificare i risultati dei referendum come unareazione del basso della società, ormai definitivamente impoverito e ridotto ad assistere inerte allo smantellamento delle sicurezze novecentesche, porta la sinistra a non affrontare il tema centrale legato alla difesa della Costituzione:l’incompatibilità dei Trattati istitutivi della UE con le costituzioni moderne, nate nel dopoguerra, e, se si dà uno sguardo al caso italiano, alla sostanziale sostituzione della Carta del 1948 con i dettami delle strutture sovranazionali.

L’EUROPA, LA COSTITUZIONE E LA PIENA OCCUPAZIONE

Anche nell’ultima assemblea che ha richiamato l’unità della sinistra – quella promossa da Anna Falcone e Tomaso Montanari, nella quale si è riunito il gotha del progressismo liberale –  il tema o è stato accuratamente eluso o chiamato in causa con argomentazioni inverosimili.
Anzi Tomaso Montanari è andato ben oltre, nel momento in cui è riuscito a menzionare il problema UE e contemporaneamente a pubblicizzare un rafforzamento delle strutture con sede a Bruxelles e Francoforte. Il richiamo di Montanari è risultato particolarmente insidioso nel momento in cui ha affermato: “L’Italia è il più autorevole di un grande gruppo di paesi che può e deve chiedere una profonda revisione dei trattati. Mentre da subito bisogna attuare i punti più avanzati dei trattati attuali: per esempio l’articolo 3 del Trattato di Lisbona, che mette tra gli obiettivi dell’Unione la piena occupazione. Per far questo occorre costruire una sovranità europea, una vera politica europea”.
Le omissioni contenute in questo passaggio sono molteplici, perché l’articolo richiamato – oggi  diventato l’art. 2 III comma del Trattato di Lisbona –  in realtà è così strutturato: “L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”. Solo da una semplice prima lettura appare evidente il contrasto tra questa formulazione e quella contenuta nell’art. 4 della Costituzione Italiana che così recita “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Il Trattato di Lisbona, quindi, riconduce la tendenziale piena occupazione, non tra i compiti dello Stato, bensì come conseguenza di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva e dalle politiche tese alla stabilità dei prezzi che generano deflazione salariale(3) e perdita dei diritti connessi al lavoro.
La piena occupazione richiamata da Montanari è, in buona sostanza, quella contenuta in un vero e proprio manifesto dell’ordo-liberismo che si pone in netta contraddizione con i principi ispiratori del Costituzionalismo moderno che si basavano su un forte intervento dello Stato per proteggere la collettività dai rischi connessi allo sviluppo capitalistico. Al contrario il riferimento all’economia sociale di mercato rappresenta lo stratagemma, utilizzato in primis dalla Germania, per sancire il principio secondo cui lo stesso individuo assume su di sé gli obiettivi dell’economia di mercato, che in questo senso si socializza (4).
Montanari, quindi, o non conosce i trattati europei o, se li conosce, evita, volontariamente, di spiegarne la natura ideologica, poiché se così facesse, dovrebbe trarre alcune conseguenze logiche.
Per esempio che i Trattati istitutivi dell’Unione Europea sono immodificabili perché strettamente connessi all’ideologia neo-liberista, e proprio l’esistenza di essi impedisce il pieno esercizio della sovranità costituzionale. Appare evidente che la difesa della Costituzione è uno specchietto per le allodole, se posta in termini generici e così fuorvianti.
Se da un lato l’omissione in questione serve per non disturbare i manovratori ed evitare che il dissenso possa avere ricadute di reale opposizione al sistema di dominio neo-liberista e quindi con il proposito di silenziarlo e progettare contenitori politici ossequiosi e docili, dall’altro si nota come la sinistra, nel suo complesso, aderisca, da quando si è allontanata dalla critica sociale d’ispirazione marxista, alle illusioni universalistiche del liberalismo.

LA MUTAZIONE GENETICA DELLA SINISTRA IN ITALIA

 Quest’adesione è avvenuta attraverso due distinti filoni di pensiero. Il primo è quello legato alla mutazione ordo-liberista del PCI, che dalla fine degli anni ’70 fu l’ideatore, insieme alla CGIL, dell’ideologia dell’austerità, attraverso la quale si iniziava a richiedere ai lavoratori sacrifici, per avere come contropartita un’immaginifica e rinnovata capacità produttiva. Processo portato a compimento quando, con l’avvento della seconda Repubblica, il gruppo dirigente post-comunista ha iniziato a recepire, acriticamente, i dettati compilati e imposti dai vincoli esterni contenuti nel Trattato di Maastricht.(5) 
Il secondo è legato alla struttura ideologica della sinistra radicale, che dal movimentismo anarco-liberale del 1968 in poi, ha accettato la supremazia del soggetto come elemento cardine di una politica antagonista. Proprio l’antagonismo è, in questa fase storica, il più grande alleato del capitalismo globale, poiché anch’esso punta allo sfaldamento delle strutture sociali e solidaristiche, al fine di concepire una società parcellizzata e atomistica, supina agli intendimenti del mercato che si deve espandere senza ostacoli(6).
La conseguenza è il comune accordo, tra sinistra e capitalismo globale, nel ridurre al minimo il ruolo dello Stato. Al massimo, secondo le indicazioni ordo-liberiste, esso si trasforma in apparato burocratico guardiano della libera concorrenza, ma privo della capacità di esercitare la piena sovranità.
Non a caso la sinistra ordo-liberista ha provveduto negli ultimi vent’anni alla massiccia campagna di privatizzazioni operata nel nostro Paese, contribuendo al decadimento della sfera pubblica, mentre la sinistra radicale, nell’opporsi alle privatizzazioni, conduce battaglie capziose nel momento in cui utilizza un linguaggio perfettamente accomodante nei confronti delle stesse, quando si riferisce alla difesa di fantomatici “beni comuni”, che si contrapporrebbero a quelli pubblici. Ma i beni o sono privati o sono pubblici, tertium non datur.
La difesa della Costituzione, con queste premesse, è del tutto fittizia. La Carta viene descritta come una bussola ma al contempo si partecipa alla sua distruzione. Per questo Montanari parla di conquistare una sovranità europea, dimentico del fatto che essa è già operante e che viene esercitata dalla UE in maniera repressiva nei confronti di chi non si adegua agli standard previsti proprio dalla forte competizione. 

LA SOVRANITA’ NAZIONALE PER DIFENDERE LA COSTITUZIONE

Vengono a compimento, in maniera definitiva, le profezie di Federico Caffé quando descriveva quella che si potrebbe definire la spirale ordo-liberista nel momento in cui le decisioni prese sulla stabilità dei prezzi diventano incongruenti con gli obiettivi della collettività, ma la stessa stabilità dei prezzi è presa, nuovamente, a modello per ovviare alle contraddizioni economico/sociali dalla stessa provocate.(7)
La sinistra, così per come si configura in Italia, dimostra la propria complicità nei due proponimenti principali dell’ordine neo-liberista: l’annientamento della democrazia e l’abbattimento delle società salariali che, proprio grazie ai partiti socialdemocratici, furono edificate dagli Stati nazionali europei del dopoguerra.
Per questo, oggi, i concetti di Patria, sovranità popolare e Costituzione sono intimamente connessi per operare in netto contrasto con il modello neo-liberista e, inoltre, il recupero della sovranità nazionale appare condizione indispensabile, non solo per il recupero della dimensione democratica e costituzionale, ma anche per immaginare la costruzione di un modello di sviluppo alternativo a quello capitalistico.  
La questione del legame tra opposizione al neo-liberismo e recupero della sovranità nazionale è stata compresa soprattutto da Jean-Luc Mélenchon in Francia, difatti nella campagna presidenziale egli ha proposto una nuova assemblea costituente e, al contempo, l’uscita della Francia dai Trattati qualora non si ovviasse alla loro, radicale, trasformazione.
In Italia, dopo venticinque anni di macelleria sociale e di annientamento del sistema produttivo, tutto ciò viene, allegramente, ignorato, per continuare a proporre liste elettorali, votate ad un ministerialismo nevrotico e che si propongono di unire le due, fantomatiche, sinistre.
NOTE
1 – Particolarmente istruttivo sul punto fu C. Wright Mills quando descrisse la nascita di questi interessi nella società americana del dopoguerra “Il liberalismo, ora quasi un denominatore comune della politica degli Stati Uniti, diventa liberalismo amministrativo, potente struttura statale che avoca a sé un maggior numero di problemi, nel cui interno le lotte politiche aperte si trasformano in procedure per pressioni amministrative” e la loro pericolosità per la tenuta della democrazia americana sin dagli anni ’50 “Ma nello stesso tempo, se il futuro della democrazia americana corre dei rischi, non è a causa di un movimento della classe lavoratrice, ma a causa della sua assenza e perché esso è sostituito da un nuovo sistema di interessi costituiti. Se questi nuovi interessi appaiono spesso particolarmente pericolosi per la struttura sociale democratica, è perché sono così grandi e tuttavia così esitanti.” (C.Wright Mills, Colletti Bianchi, Einaudi Editore, 1974)
2 – La ricaduta ideologica di tale impostazione è l’esaltazione dei diritti universalistici e l’abbandono del criterio che era alla base del Costituzionalismo moderno, quello dell’istituzionalizzazione del conflitto di classe. Il percorso attraverso il quale si è arrivati a tentare di rappresentare interessi omogenei e slegati dalle condizioni socio-economiche e il legame con la teoria neo-liberale e post-moderna è ben descritto da Gaetano Azzariti, in particolare quando afferma “Esclusa la dimensione politica e conflittuale, si teorizza che le nuove costituzioni civili post-moderne e post-nazionali debbano trarre la propria legittimazione da interessi settoriali, prodotte dalle spinte spontanee del mercato e da indeterminate forze che operano entro comunità asettiche. Costituzioni, dunque, necessariamente arrese, che finiranno inevitabilmente per porsi al servizio del potere costituito, operando in accordo con il potere selvaggio del mercato.” (Gaetano Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, 2016)
3- Sulla deflazione salariale Sergio Cesaratto su asimmetrie.org 
4- Per uno studio approfondito e di facile fruibilità si rimanda agli scritti di Vladimiro Giacché e di Luciano Barra Caracciolo. Del primo si raccomanda la lettura di Costituzione contro Trattati Europei – Il conflitto inevitabile, Imprimatur, 2015; del secondo La Costituzione nella palude, Imprimatur, 2015. Giacché descrive, inoltre, come il pricipio della stabilità dei prezzi sia presente in altri articoli particolarmente significativi dei Trattati e che sia stata posta come condizione necessaria per poi poter avviare politiche anticicliche. In particolare i riferimenti sono l’art. 119 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea; l’art. 127 dello stesso che si riferisce alla politica monetaria. Il problema della stabilità dei prezzi, strettamente connesso ai limiti imposti per le politiche occupazionali è poi ulteriormente aggravato dall’approvazione in Costituzione della riforma dell’art.81 (cd Pareggio di Bilancio).
5- Sulle politiche, denominate di solidarietà nazionale, del PCI e della CGIL alla fine degli anni 70 e l’adesione degli stessi all’irreversibilità dei vincoli esterni si guardi La scomparsa della sinistra in Europa di Massimo Pivetti (Imprimatur, 2016)
6- La sinistra partecipa alla costruzione di quella che Dardot e Laval hanno definito la “ragione-mondo” neo-liberista “La ragione politica neo-liberale, nel suo stesso principio costitutivo, concentrando la realtà del potere nelle mani degli attori economici più potenti a svantaggio della gran parte dei cittadini, produce insicurezza e disciplina la popolazione, disattiva la democrazia e frammenta la società…una ragione dotata della capacità di estendere e imporre la logica del capitale a tutte le relazioni sociali fino a farne la forma stessa delle nostre vite.” (Dardot-Laval, Guerra alla democrazia-L’offensiva dell’oligarchia neo-liberista, Derive Approdi, 2016)
7- Federico Caffé, In difesa del welfare state – saggi di politica economica, Rosenberg & Sellier, 1986

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