sabato 30 aprile 2016

BREXIT: IL PARTITO LABURISTA PER LA EU (E CON LA CITY) di Jim Edwards

[ 30 aprile ]

L'arrivo di Jeremy Corbyn alla testa del Labour Party è stato salutato in modo sguaiato dalla sinistra radicale italiana. Corbyn ha annunciato che è contrario all'uscita del regno Unito dall'Unione europea. Qui sotto un articolo che condanna questo posizionamento. Ma l'articolo non dice che c'è una sinistra britannica che voterà a favore della Brexit. Lo segnalavamo di recente.

«La cosa più strana del referendum sulla Brexit è il modo in cui la Sinistra e la Destra in Gran Bretagna si sono allineate sulle sponde opposte di dove ve le aspettereste. La campagna per l’uscita viene condotta in gran parte dai Conservatori, che da sempre sono contro la permanenza nell’UE. La campagna per restare, invece, ha ricevuto un forte sostegno proprio questo mese da parte del leader laburista Jeremy Corbyn, che ha fatto un importante discorso a favore della permanenza in UE.

Eppure non c’è niente di particolarmente conservatore nell’uscita dall’UE: la sovranità e il decentramento del potere sono storicamente cause impugnate dalla sinistra. È stato un governo laburista a devolvere maggiore potere a Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Alcuni parlamentari laburisti, come Tristram Hunt, ritengono di non aver comunque fatto abbastanza [nella direzione del decentramento del potere] quando erano al governo. Hanno guardato David Cameron con gelosia, nel momento in cui questi ha devoluto maggiore potere alle “Centrali del Nord”, cioè le zone attorno alle città di Liverpool e Manchester. L’autodeterminazione è storicamente una cosa di sinistra.

Ma la cosa ancora più strana è che non c’è nulla di particolarmente “di sinistra” nel voler restare in Europa. Se c’è qualcosa che l’esperienza della Grecia avrebbe dovuto insegnare alla Sinistra è che l’Europa è un club antidemocratico per capitalisti, nel quale le finanze sono gestite in larga parte a beneficio delle banche internazionali.

La Grecia è importante nel dibattito sulla Brexit perché ci dimostra di cosa è capace l’UE nei momenti critici. Per riassumere una situazione molto complicata in un paio di frasi, la Grecia ha eletto un governo di sinistra nel gennaio 2015. Questo governo ha tentato di rinegoziare il debito con la UE e ha fallito. La UE rivoleva i soldi sebbene tutti sapessero che l’economia greca era troppo debole, e che questa pretesa avrebbe azzoppato il paese.

Poi il governo ha fatto un referendum nel luglio 2015, sulla questione se si dovesse o meno accettare il piano di rimborso del debito alle condizioni della UE. La maggioranza ha votato per non accettarlo. Anche questi voti sono stati ignorati dalla UE, la quale alla fine ha costretto il paese ellenico ad accettare onerosi termini di finanziamento che hanno spinto la Grecia in una recessione più profonda di quella che gli Stati Uniti videro negli anni ’30 durante la Grande Depressione.

Il punto rilevante non è che voi siate d’accordo o meno con le politiche del governo greco. Il punto rilevante riguarda la sovranità e la democrazia: per due volte i greci hanno votato contro i mandati fiscali dell’UE, e per due volte sono stati ignorati — a beneficio delle banche. Ecco come si comporta la UE di fronte alla volontà di un popolo.

Certo, il debito greco non viene dal nulla. I greci non sono stati così eccellenti nel gestire i propri debiti, va bene. Ma inizialmente il credito gli è stato concesso da banche internazionali private come Goldman Sachs.

Il debito è stato poi disastrosamente rifinanziato dalla BCE e dal FMI, trasferendo così il debito dalle banche private a banche pubbliche/politiche, come la BCE e il FMI. Questa manovra è stata di un’importanza cruciale, perché ha spostato il debito dalla sfera privata — nella quale c’è un’accettazione del rischio — alla sfera pubblica/centrale, che non può ammettere default.

Avendo il debito greco in mano (5 miliardi di euro all’inizio) il problema per FMI e BCE era che in nessun caso avrebbero potuto “sganciare” la Grecia. In caso di default, qualsiasi paese o debitore nel mondo saprebbe che FMI e BCE non fanno sul serio quando si tratta di riscuotere i debiti. Se il debito fosse rimasto nel settore privato, un default avrebbe danneggiato solo gli azionisti di Goldman Sachs. Le banche private possono accettare il default o il taglio del debito, perché il rischio finanziario è cosa che gli appartiene. Ma il rischio politico non le riguarda affatto.

In quel contesto non c’è da stupirsi che le banche siano fortemente a favore della permanenza della Gran Bretagna nell’UE. Lloyds, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, e un bel mucchio di fondi speculativisi sono tutti espressi a favore della permanenza della Gran Bretagna nell’UE. Alcuni hanno anche finanziato la campagna per la permanenza. Alle banche piace il fatto che, quando ne combinano una, poi arrivi la grande banca centrale a farsi carico dei debiti cattivi che esse dovrebbero riscuotere. Dal punto di vista di Goldman Sachs, la Grecia adesso è problema di qualcun altro, e tutto grazie alla UE.

È questo il motivo per il quale risulta così bizzarro vedere Corbyn che si dimostra solidale con la campagna dei banchieri per restare dentro l’UE.

In linea generale la Sinistra in Gran Bretagna è a favore dell’Europa perché l’UE impone ai suoi paesi di adottare certe leggi per tutelare i diritti umani e i diritti dei lavoratori. La UE attualmente è più liberale del governo Conservatore in Gran Bretagna, ed è probabile che la vita si faccia più dura per i lavoratori britannici se la Gran Bretagna va da sola. Ma si tratterebbe di politiche contingenti, perché la politica cambia. Chi lo sa quale governo tedesco di destra potrebbe avere forte influenza in Europa tra 10 anni? E cosa dire se, poniamo nel 2026, una forza conservatrice in UE dovesse impedire a un ipotetico Primo Ministro Corbyn di nazionalizzare le ferrovie? La legge UE proibisce letteralmente ai paesi di nazionalizzare determinate industrie.

IL partito laburista non potrà certo far decollare la sua idea di proprietà pubblica se rimane dentro la UE. Per contro, potremo ragionevolmente vedere il ritorno del British Rail [ferrovia pubblica britannica, NdT] solo dopo una Brexit.

La UE non è nemmeno un ottimo garante dei diritti umani. Leggete la sezione sulla libertà di parola del trattato UE sui diritti umani — la descrizione delle eccezioni al diritto di libertà di parola è più lunga del resto della stessa legge, e riguarda praticamente qualsiasi cosa. (Ed è questo uno dei motivi per cui non abbiamo vera libertà di parola in Gran Bretagna.)

Al momento sembra che la Gran Bretagna voterà per restare. Nonostante i meriti del caso, la campagna per l’uscita è dominata da figure relegate ai margini della politica britannica, come il leader dell’UKIP, Nigel Farage, o George Galloway. Il voto pro-Europa prevarrà, in una vittora di ben strani compagni. Il fatto che Corbyn e Cameron siano dalla stessa parte vi dice quanto sia bizzarro il tutto».

venerdì 29 aprile 2016

STAMANI A PISA di Edoardo Biancalana

[ 29 aprile ]


Oggi, a Pisa, per i 30 anni di internet

Breve cronaca di una contestazione riuscita

Renzi ha avuto il coraggio di parlare di «scontri incomprensibili». Eppure chi meglio di lui dovrebbe «comprenderli». A manganellare sono state le "sue" forze del dis(ordine). Ed in quanto all'aria che tirava a Pisa qualche informazione doveva pur averla, dato che - annunciato da settimane - alla cerimonia dell'Internet day presso il Cnr della città, all'ultimo ha preferito darsela a gambe. Il che, per un presenzialista come lui, la dice lunga assai.

Siamo arrivati a Pisa di buon mattino, recandoci subito al presidio nei pressi del Cnr. Qui si è ricongiunto il corteo partito dal centro della città. Un migliaio di manifestanti assai variegato. Studenti, esponenti del sindacalismo di base, ma anche una piccola delegazione dei truffati di Banca Etruria.

Diversi gli slogan contro le banche ed il governo dei banchieri. Poi un chiaro e forte «Renzi a casa», a racchiudere il comune sentire dei manifestanti.

Nonostante l'assenza del premier e degli altri esponenti del governo che avrebbero dovuto presenziare alla cerimonia, notevole è stato lo schieramento delle forze di polizia che ci hanno costretti a stazionare nella zona retrostante il Cnr, dato che l'ingresso dello stesso era presidiato e del tutto inaccessibile.

Ad un certo punto, prendendo a pretesto un lancio di verdura, è partita la carica. Nell'arretramento che ne è seguito diversi manifestanti sono caduti. E' su questi che si sono avventati, a manganellate, sia i carabinieri che i poliziotti. In diversi, alla fine, hanno dovuto ricorrere alle cure mediche mentre due manifestanti sono stati fermati.

Successivamente il presidio è proseguito, ma dovendo sempre fronteggiare l'azione delle forze di polizia tesa a disperderci.

Questa mattinata pisana ci insegna alcune cose. La prima è che Renzi è in difficoltà. La sua cura dell'immagine non può ammettere contestazioni. E, se queste ci sono e sono annunciate, lui decide di starsene a casa. Utile a sapersi per le prossime volte. La seconda cosa è che, di fronte alle contestazioni, le forze di polizia hanno l'ordine di non andarci troppo per il sottile. Evidente il tentativo di stroncare sul nascere un movimento di piazza contro il governo.

Ma la terza cosa è ancora più importante. Se si chiama alla mobilitazione contro Renzi la risposta c'è. Non ancora come ci vorrebbe, ma c'è. E questa è l'indicazione più preziosa in vista degli appuntamenti dei prossimi mesi.

Appena disponibile pubblicheremo il video della manifestazione e degli scontri.

COSTITUZIONE: UN ATTACCO CHE VIENE DA LONTANO di Luciano Canfora

[ 29 aprile]

La prova decisiva sarà in autunno, ma l'attacco alla Costituzione viene da lontano. Le nostrane classi dominanti l'hanno sempre odiata, come ci ricorda nell'articolo che segue Luciano Canfora (nella foto). Adesso l'attacco viene in primo luogo dai potentati finanziari internazionali, e dall'Unione Europea in particolare. E' utile tuttavia ricordare il passato, altro non fosse che per rinfrescarci la memoria su quel che intendeva Renzi quando nel settembre scorso disse: «...non per cattiveria, ma questa riforma è attesa da settant'anni».


Attacco alla Costituzione, una lunga storia

di Luciano Canfora


L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).


Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).

Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo. Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».


L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.


La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.


Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.


Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.


La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto m.onarchico.


La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.


giovedì 28 aprile 2016

MARXISTI E NEO-KEYNESIANI A CONFRONTO SU CAUSE E SOLUZIONI DELLA CRISI

[ 28 aprile ]

L'Unione europea epicentro della crisi economica globale
MARXISTI E NEOKEYNESIANI A CONFRONTO SU CAUSE E SOLUZIONI
INCONTRO SEMINARIALE
con i professori 
Marco Veronese Passarella 
e Amedeo Argentiero 


Lunedì 9 maggio, ore 18:00

Marco Veronese Passarella
Facoltà di Economia dell'Università di Perugia (Via G. Pascoli) Aula n.II

Per la teoria economica “neo-classica”, meglio conosciuta come neoliberista, stiamo non solo vivendo nel migliore dei mondi possibili, ma nell’unico possibile. 

Recessione, deflazione, bassi salari, disoccupazione di massa, squilibri commerciali tra i diversi paesi: sono “effetti collaterali”, shock economici salutari per consentire alle forze di mercato di agire liberamente, solo così facendo si potrà rilanciare il ciclo economico e assicurare prosperità.
C’è un problema: le cose non stanno andando affatto così. 


Le politiche austeritarie hanno aggravato la recessione mentre la strategia mercantilistica della Germania ha gettato nel marasma l’Unione europea.


Di contro a quella neoclassica esistono tuttavia altre scuole di pensiero che offrono spiegazioni diverse sulle origini e le cause della crisi economica e che offrono soluzioni alternative per 


Amedeo Argentiero
uscirne.

Programma 101 invita studenti e cittadini all’incontro seminariale con Marco Veronese Passarella e Amedeo Argentiero che vuole essere un’occasione preziosa per comprendere come funzioni l’economia oggi e come dovrebbe funzionare domani avendo a cuore il bene comune, non quello di una ristretta minoranza.

mercoledì 27 aprile 2016

CAPITALISMO CASINÒ E NUOVE DIVISIONI DI CLASSE: LA SOLLEVAZIONE POPOLARE POSSIBILE di Moreno Pasquinelli

[ 27 aprile ]

Sì, stiamo giungendo al finale di partita, quello che deciderà il futuro del nostro Paese. L'economia mondiale boccheggia, l'Unione europea traballa, in Italia il governo Renzi è appeso al filo di un'improbabile vera "ripresa economica". In questo quadro è alle porte un evento politico che potrebbe fungere da spartiacque: il referendum costituzionale di ottobre. 
Renzi si gioca tutto, o quasi. Tutti i poteri oligarchici, stranieri e nostrani, saranno dalla sua parte. Vincerli nelle urne è difficile, ma non impossibile. Ove Renzi venisse battuto cosa accadrà? La crisi politica e istituzionale precipiterebbe, con conseguenze sull'economia: fuga dei capitali, crollo delle banche, nuovo shock degli spread sui debiti pubblici.... Si aprirebbe una fase nuova di turbolenze. Possono i dominanti permettersi di andare alle urne col rischio di una sconfitta del Pd renziano? O agiranno sulle leve disfattiste del caos e della paura per portare in Italia la troika? In questo contesto reggerà la pace sociale, o si aprirà una fase di acuta conflittualità sociale? Ci sarà la sollevazione popolare? E se sì, che forme e pieghe prenderà? E che ruolo giocheranno le diverse forze politiche? Di sicuro non si esce dal marasma senza svolte radicali.
A noi pare che questa sia la madre di tutte le discussioni. Ho scritto, giorni addietro sulla RIVOLUZIONE DEMOCRATICA.
Per spiegare come la penso mi pare il caso segnalare ai lettori alcuni passaggi di quanto scrissi anni addietro. Anzitutto sulle forme che potrebbe prendere l'auspicata sollevazione, segnatamente: Il loro piano e quello nostro.
Infine l'ultima parte di un breve saggio dal titolo: LA DIAGONALE DEL DEBITO (QUALI SONO OGGI LE FORZE ANTAGONISTE?) che si sofferma sulle caratteristiche e la natura della società odierna, come la finanziarizzazione connoti la struttura e la sovrastruttura sociali, come queste connotino i conflitti sociali.

M.P.

Non immaginatevi una sollevazione fulminea e risolutiva
24 ottobre 2013

«Chi gestirebbe questo economicidio? Un nuovo governo di “larghe intese” è escluso, com’è eslcuso che il Pd, coi suoi ammennicoli possa farlo. Qui l’inquietante prospettiva del “podestà forestiero”, non a caso adombrata dal Gaulaiter Mario Monti nell’agosto 2011. L’Italia, che è già paese ad amministrazione controllata, verrebbe a quel punto governato da un direttorio emanazione della troika.
La minaccia di un nuovo crollo finanziario globale, come fu quello del 2008, che molti analisti ritengono probabile dopo anni di sbronza monetaria e di bolla dei valori borsistici, renderebbe cogente questa drammatica eventualità.

Il "piano" opposto non potrebbe essere che una sollevazione popolare. Che questa possa sopraggiungere prima, come noi ci auguriamo, è possibile ma altamente improbabile. E’ molto probabile invece che lo shock colpisca il paese tra capo e collo, che avremo solo a quel punto, oramai precipitati nell’abisso, una sollevazione generale.

Non immaginatevi una sollevazione fulminea e risolutiva. Il paese entrerà in un periodo di acutissime convulsioni sociali e politiche, la sollevazione procederà per fiammate, non seguirà una linea retta ascendente. Occorre rassegnarsi ad una sinfonia caotica e sconnessa, poiché mancano sia lo spartito che una direzione d’orchestra. Detto altrimenti avremo un conflitto coriandolare, policentrico, poiché, mentre la borghesia italiota è oramai una classe parassitaria e al tramonto, non abbiamo nemmeno, perché oramai spappolato, imborghesito, eviscerato, un proletariato che possa candidarsi a ruolo guida di un blocco sociale in grado di sovvertire l’ordine delle cose e prendere in mano le redini del paese.

E’ dentro questo marasma disordinato che le forze democratiche e sovraniste saranno chiamate e portare ordine e introdurre senso. Un blocco sociale e politico antagonista prenderà forma nel mezzo dello sconquasso. L’egemonia l’avrà chi saprà gettarsi nel conflitto trasformando la disperazione in rabbia consapevole; di chi saprà fare, di coloro a cui è stato tolto tutto, la forza motrice di un blocco ampio con i molti che vorranno difendere il poco che gli resta; di chi, portatore di un’idea nuova di società, saprà indicare la via e i mezzi per aprirgli una strada.

Se, su questo d'accordo col Della Loggia, ho ragione nel sostenere che da questa crisi si esce solo con soluzioni radicali; se sono nel giusto nel ritenere che la borghesia italiana non ha né la volontà né la forza per rompere la gabbia eurista e liberista; se, come ritengo, per questo abdicherà e accetterà di fare del Paese una semi-colonia; se, come penso, la forza motrice della sollevazione saranno i settori sociali dilaniati dalla crisi sistemica; non solo lo scontro si farà durissimo, ma la società subirà un processo di polarizzazione sociale, politica e ideologica violento che divaricherà lo stesso campo delle forze sovraniste. 

Con buona pace degli azzeccabarbugli che dai loggioni strillano lo stesso mantra del pensieero unico mainstraeam, quello della “morte delle ideologie” e della “fine della dicotomia tra destra e sinistra”».


Sulle nuove divisioni di classe nel capitalismo casinò

Da: LA DIAGONALE DEL DEBITO (QUALI SONO OGGI LE FORZE ANTAGONISTE?) 
23 agosto 2015

«Questi sono solo alcuni macroscopici dati empirici che fotografano una situazione sociale che ogni giorno diventa più drammatica per ampie fasce della popolazione. Non tutte tuttavia. E qui sta il punto.
Non voglio sfuggire alla domanda che un lettore, andando al sodo, mi ha posto: «Analisi corretta ma conclusione deludente. A che livello di impoverimento dobbiamo arrivare, noi povere masse, prima di sollevarci»? 

Due premesse sono necessarie.

La sollevazione non è, di per sé, una rivoluzione, poiché per rivoluzione, intendiamo un mutamento voluto della struttura sociale e politica. La qual cosa implica un’adesione di ampie masse ad un progetto alternativo di società, e quindi una partecipazione consapevole al processo di trasformazione sociale. Per sollevazione intendiamo un moto di ribellione popolare, una rivolta generale che, pur non avendo un fine prestabilito, almeno rovescia chi sta in alto e punta a demolire il vecchio ordinamento politico sociale. Non hai una rivoluzione se non passi prima per la porta stretta della sollevazione popolare.
La seconda premessa è questa. Siamo d’accordo o no che la tendenza è alla pauperizzazione del popolo lavoratore? Siamo d’accordo o no che questa tendenza, oltre ad essere il risultato necessitato della crisi storico-sistemica, è anche la terapia cercata dalle oligarchie tecno-finanziarie nostrane? Se non concordiamo sul fatto che questa è la tendenza obiettiva, ogni discorso girerebbe a vuoto e, come minimo, non si può afferrare il succo di quanto diciamo.

A che livello di pauperizzazione occorre arrivare affinché ci sia la sollevazione? Non è possibile dare una risposta irrefutabile a questa domanda. Date alcune condizioni, se porto l’acqua a cento gradi, so con certezza che bollirà e, avendo note la quantità di liquido e la potenza del calore, posso addirittura stabilire il momento in cui inizierà a bollire. Le dinamiche sociali sono un po' più complesse di quelle del mondo fisico. Tutta l’importanza di individuare la tendenza (alla catastrofe sociale) sta nel fatto che si può agire in modo rivoluzionario per contrastarla, aiutando le masse a costruire la fuoriuscita da questo sistema.  Vi sono, tuttavia, altri soggetti che agiscono in senso contrario, per agevolare la stessa tendenza e volgerla ai loro fini, tra questi tutti gli apparati oligarchici, statuali e politici della classe dominante. Noi riteniamo, come del resto insegna il caso fresco fresco della Grecia, che la sollevazione popolare non solo è possibile ma altamente probabile. Diventerà meno probabile se in tempi ragionevolmente brevi non daremo vita e forma ad un fronte della sollevazione popolare.

Per stare al punto: contrariamente alla favoletta di Occupy Wall Street, non sarà affatto il 99% a sollevarsi. Non tutte la fasce della popolazione avranno interesse a ribellarsi. Compito dei rivoluzionari è capire quali saranno le fasce che si mobiliteranno e quelle che agiranno da freno, se non addirittura come avversarie. Per questo occorre mettere bene a fuoco come tre decenni di capitalismo casinò hanno modellato la struttura di classe della società.

Un altro lettore mi diceva:«Considerare le classi sociali in base al loro ruolo nel sistema di produzione è un modo di vedere datato che va superato. Le classi sociali si distinguono in base al loro senso di appartenenza non alla quantità o tipo di reddito».

Appunto. Come chi ci segue sa bene, noi siamo molto lontani da certi marxisti (economicisti) per i quali è sufficiente, per riconoscere una classe, il posto che questa occupa nella struttura economica della società, la cosiddetta classe in sé. Sono gli stessi, questi economicisti, che per spiegare come mai il proletariato abbia come destino quello di portarci al comunismo, ricorrono ad una metafisica del soggetto, per cui il proletariato assolverà la sua missione a dispetto della sua coscienza. È evidente che non è così, che una classe non è tale se non ha consapevolezza dei suoi propri interessi. Come un essere umano, che se non ha coscienza di esserlo, ovvero un essere storico-sociale, è solo un mero organismo biologico.

Pur tuttavia, per stare alla metafora, non è che un medico, posto davanti ad un uomo malato che tra l’altro sia convinto di essere una gatto e si comporti come tale, sia autorizzato a curarlo come fosse un felino. La fisologia ha la sua indiscutibile importanza.

Il punto di partenza per capire la società è svelare la sua fisiologia. Una fisiologia, quella della società capitalistica, che è dinamica, mutante. La struttura sociale dei paesi imperialisti già da tempo non era più quella dell’Inghilterra che Marx aveva sotto gli occhi. Il declino delle forze produttive non si ebbe, le classi intermedie erano aumentate invece di sparire, i settori di aristocrazia operaia che ricevevano un reddito ben superiore a quanto necessario per sopravvivere cresciuti a dismisura, al posto del pauperismo avemmo il fenomeno dell’imborghesimento.

Quel modello sociale keynesiano-fordista con welfare diffuso da tempo è in via di smantellamento. Esso è stato rimpiazzato da quello che noi preferiamo chiamare capitalismo casinò. [9] In molti altri articoli abbiamo spiegato quale sia la sua architettura formale: un sistema fondato sulla rendita finanziaria. Il vecchio sistema imperialista si basava sulla fusione, via banche, tra capitale finanziario e quello industriale. Ora il settore finanziario-bancario ha soggiogato quello industriale. A questo modello corrisponde una nuova fisiologia della società, una nuova composizione di classe. Prima di vedere come il capitalismo casinò ha mutato la società, trasformato le classi, plasmato la loro psicologia e rideterminato loro comportamenti collettivi, vogliamo spendere poche parole sulla sua sostanza.

Inceppatasi la lunga fase espansiva postbellica [10] il sistema capital-imperialista ha dovuto trovare una maniera per non soccombere alle sue proprie contraddizioni. Ha trovato questa maniera con una scoperta che rassomiglia all’Uovo di Colombo. Il profitto è sì la molla che muove la macchina del capitale, ma solo in quanto esso può trasformarsi in denaro, suprema e astratta forma della ricchezza. E dato che fare profitti ed estrarre plusvalore costa fatica, ecco che il capitale ha optato per la scorciatoia della pura speculazione, di fare e ammucchiare denaro attraverso il denaro — il denaro come tesoro che viene tesaurizzato fuggendo dal circuito della produzione reale e da quello della circolazione. Il capitale non ha inventato niente, la rendital’ha trovata accanto a sé bell’e fatta. Dopo averla guardata in cagnesco per secoli, dopo averla condannata come usura parassitaria, il capitale si è convertito ed essa, gli ha venduto l’anima.

Questo processo, prima di espandersi ad ogni latitudine, prese il via oltre Manica e oltre oeceano. Grazie ad un habitat favorevole e all’appoggio dei governi neoliberisti di Reagan e della Teatcher e delle banche centrali, il capitale, nella forma di denaro liquido si è avventato su tutto ciò che, capitatogli a tiro, poteva fruttare guadagno. Gli investimenti in capitale costante e variabile si sono spostati progressivamente sui titoli (rappresentazioni fantasmagoriche delle merci), fino al fenomeno diabolico delle cartolarizzazioni e dei derivati. Le borse sono diventate, ad iniziare da quelle di Wall Street e della City, i templi in cui la rendita tutto sacrificava in nome del Dio denaro. Veniva così nascendo (con l'ausilio della macchina info-telematica) la nuova casta sacerdotale tecnocratica, quella dei brockers e dei grandi manager bancari, preposta al culto del nuovo "dogma trinitario" [11]: denaro, credito, interesse. Nuovi mostri, i fondi finanziari, prendevano forma nel brodo primordiale della inforendita. Questo passaggio determinava un mutamento profondo del sistema, prendeva forma quello che ho definito metacapitalismo. [12] Alla tradizionale figura del capitalista operante che usava sì il denaro, che acquistava e vendeva merci, ma per ricavarne un plusvalore per mezzo del processo di produzione, si affiancava il "capitalista monetario parassita", dedito a prestare denaro per ottenerne un interesse campando così di rendita, senza quindi entrare mai nel ciclo della produzione, volteggiando  nella sfera della circolazione monetaria per poi inquattarsi come tesoro depositato nei forzieri —di qui l'attuale trappola della liquidità: la montagna di denaro consegnata dalla banche centrali se ne sta ferma nei caveau della banche d'affari.

Il crollo della produzione industriale
italiana per singoli settori 

Soggiogati i governi, l’oligarchia rentierotteneva che i titoli di debito pubblico degli Stati diventassero prodotti finanziari e venissero gettati sui mercati. Una vera gallina dalla uova d’oro. Nasceva un sistema micidiale di rapina con cui spostare la ricchezza monetaria diffusa (risparmi) dalla tasche dei cittadini ai caveau delle banche, da certi settori ad altri, da certi Stati ad altri.

Ha tutto l’aspetto di una stregoneria quello per cui, nei mercati finanziari, il debito, diventato titolo negoziabile, ingrassa chi se lo passa di mano in mano, strozzando chi lo ha emesso e fregando chi se lo trova in mano per ultimo. La merce-debito, come aveva già segnalato Marx [13] non ha un valore di scambio, il suo prezzo dipende dall’irrazionale gioco della domanda e dell’offerta, dalle aspettative di rialzo —guadagno assicurato fino a quando le aspettative salgono, fino a quando tutto crolla a causa delle prime fughe. Un gigantesco sistema Ponzi. Morale: se da qualche parte qualcuno guadagna senza lavorare dev’esserci dall’altra qualcuno che lavora senza guadagnare. 

Con queste modificazioni della struttura economica è mutata tutta la sovrastruttura della società. Questo sistema ha infettato tutto il corpo sociale. Centinaia di milioni di cittadini, proletari compresi, sono finiti per invischiarvisi. Non parliamo solo di coloro che si sono messi a giocare in borsa, a comprare e vendere obbligazioni e azioni. Con le privatizzazioni dei sistemi pensionistici la stragrande maggioranza dei lavoratori si è trovata nella situazione per cui il valore della pensione attesa dipende ora dal buon andamento del suo fondo pensione, dalle scommesse di quest'ultimo nelle bische del capitalismo casinò. Avendo gettato sul mercato i titoli di debito pubblico nella stessa situazione si trova la massa sterminata di pensionati, il cui reddito è appeso, come l'impiccato alla corda,  alle performance dei mercati finanziari e degli spread, ovvero, anche in questo caso al rigore, alla macelleria sociale, alla capacità dello Stato di essere considerato solvibile da parte dei suoi strozzini creditori. Vi sono infine centinaia di milioni di cittadini che avendo affidato i loro risparmi (che altro non sono che rendite) alle banche, esigono che siano remunerativi di interesse, e per questo sono appesi alla abilità con cui la banca gioca d’azzardo i suoi quattrini sui mercati finanziari. [14]

E’ nato un popolo-rentier, una nuova forma tentacolare di consociativismo interclassista. È sorta di conseguenza una specifica coscienza sociale: la psicologia egoistica del creditore il quale esige che il debitore, chiunque esso sia, quali che siano le sue condizioni, onori il suo contratto di debito. Mors tua, vita mea. Non stupiamoci quindi se la maggioranza dei tedeschi sta con la Merkel, e nemmeno se tanti greci non vogliono abbandonare l’euro. Sono due facce della stessa medaglia. 

C’è quindi una linea trasversale che taglia in due l’intera società, la diagonale che divide i creditori dai debitori. Cadono, dall’una e dall’altra parte, interi pezzi di tutte le classi fondamentali. Una linea non immaginaria che spezza in due la stessa classe proletaria, anche su base anagrafica, tra la vecchia generazione che si attende che la sua rendita pensionistica non vada in fumo, e quella giovane e precaria, costretta a sgobbare affinché alla prima siano resi gli interessi.

Il diagramma qui accanto è solo un tentativo di visualizzare questa frattura sociale creditori-debitori, frattura che ci aiuta a spiegare i diversi atteggiamenti politici dei diversi strati sociali. La diagonale non è ovviamente una muraglia, e non cancella le tradizionali divisioni di classe. Ma le ridisegna e le ricolloca su un diverso piano.

Alain Greenspan un giorno affermò: «Un americano indebitato è un americano che non sciopera». Questo sarà forse vero in America. Non è vero qui. Qui è vero il contrario “un europeo creditore (che attende che gli siano devoluti rendita ed interessi) non sciopera” e, sotto sotto, fa parte di quella schiera di filistei che qui in Italia compongono la maggioranza silenziosa pro Monti. Lo dimostra la mappa delle proteste sociali che attraversano il Sud Europa non invece il Nord.

Qui da noi non si ribellerà il popolo-rentier. Si ribelleranno le giovani generazioni che nulla hanno da perdere e un futuro da guadagnare mandando a gambe all’aria il sistema immorale in cui viviamo. Esse saranno la leva che solleverà quella gran parte del corpo sociale sofferente, che trascinerà nel gorgo tutti i proletari veri, quelli che vino solo della vendita della loro forza-lavoro, che non hanno rendite e santi in paradiso, come pure tanti piccolo e medio borghesi che il capitalismo casinò ha gettato in disgrazia.

Una sollevazione che non prende ancora forma perché la crisi epocale del sistema di capitalismo casinò è solo agli inizi, perché troppo ampia è ancora la massa amorfa del popolo-rentier. Ma la tendenza alla catastrofe significa appunto questo: che il capitalismo casinò sta tirando le cuoia, che questa stessa massa, attraverso le politiche predatorie dei dominanti, subirà un inevitabile processo di pauperizzazione, spostandola sulla parte destra del diagramma. Sarà allora che per i dominanti si apriranno le porte dell'inferno».


Note

[9] Diversi sono i neologismi utilizzati per nominare il mostro: neoliberismo, turbo-capitalismo, finzanzcapitalism.
[10] Sulle cause della crisi del lungo ciclo espansivo postbellico abbiamo trattato in molti articoli. Segnaliamo solo questo: Alle origini del declino dell'Occidente
[11] Questa efficace analogia è di Massimo Amato e Luca Fantacci: Come salvare il mercato dal capitalismo. Donzelli Editore, Giugno 2012. testo utili da leggere, malgrado i nostri abbiano una strana idea del denaro, che non considerano merce e se la prendano dunque, non col denaro e il suo essere rappresentante astratto e simbolo della ricchezza, ma con la "liquidità".
[12] «Il capitale esiste come capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione, ma soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro». K. Marx, Il capitale. Volume III. Quinta sezione. Il capitale produttivo d'interesse. p.13
[13] K. Marx Ibidem. p. 28
[14] Un esempio lampante di come gli stessi operai fossero stati afferrati dal meccanismo della speculazione si ebbe negli Stati Uniti. Eravamo negli anni '80, gli anni della profonda crisi del polo automobilistico di Detroit. Gli operai della GM entrarono in sciopero contro i licenziamenti e chiesero la solidarietà di quelli della Ford, ma non la ottennero. Questi ultimi avevano devoluto i loro risparmi ad un Fondo che a sua volta aveva investito in azioni della GM. Azioni il cui valore stava risalendo in borsa proprio a causa dell'attivazione da parte della GM del piano di licenziamento.

martedì 26 aprile 2016

DISASTRO TSIPRAS: IL FRUTTO DEL TRADIMENTO di Emmezeta

[ 26 aprile ]

«Volete galleggiare ancora un po'? Bene, è giunta l'ora dell'austerità preventiva». Queste le condizioni poste dalla troika al governo greco. Ecco il risultato della capitolazione del luglio scorso.
Non è un secolo fa. Nel gennaio 2015 Syriza era andata al governo promettendo la fine dell'austerità. Pochi mesi di incertezza ed è arrivata la clamorosa capitolazione di luglio. Allora Tsipras e gli tsiprioti d'ogni dove dissero che in fondo si era evitato il peggio: l'austerità sarebbe stata limitata e resa più "equa", mentre il debito sarebbe stato finalmente ristrutturato. E' con queste balle che la logica del meno peggio ha consentito a Syriza di vincere le nuove elezioni di settembre. Arriviamo così all'oggi, al nuovo ultimatum della troika: «Volete galleggiare ancora un po'? Bene, è giunta l'ora dell'austerità preventiva». In quanto al debito, niente riduzione del suo valore nominale, dato che Berlino non vuole.

La trattativa è in corso e l'accordo pare vicino. L'ultimatum lanciato dall'Eurogruppo e dal Fmi scade mercoledì, in vista di una firma che molti danno per certa giovedì 28 aprile. Se un rinvio di qualche giorno è ovviamente possibile, dubbi non sembrano esserci sui contenuti  della nuova intesa tra il governo greco ed i suoi creditori: una nuova stangata antipopolare su pensioni, tagli di spesa, aumento delle tasse.

L'importo complessivo della manovra è pazzesco: 3 punti di Pil, un punto ciascuno sulle voci di cui sopra. Per rendersi conto di quel che si tratta, è come se in Italia si facesse una finanziaria da 48 miliardi, tagliandone 16 alle pensioni ed altrettanti al resto della spesa pubblica, aumentando nel contempo le tasse di altri 16 miliardi. Questo dopo anni di austerità, con l'economia nuovamente in recessione dall'ultimo trimestre 2015, con una disoccupazione risalita al 24,4%.

Pensate che sia troppo? A Bruxelles ed al Fmi pensano che sia ancora troppo poco. Alla Grecia si chiede di arrivare ad un avanzo primario del 3,5% nel 2018. E se questo non avvenisse? In questo caso i creditori chiedono delle misure preventive, che a quel punto entrerebbero in vigore automaticamente nella misura di un ulteriore 2% del Pil. 

La trattativa si svolge sostanzialmente su quest'ultima richiesta, che sul pacchetto di misure immediate l'accordo quasi c'è: «Siamo vicini a un accordo su molti aspetti chiave (...) Il livello di collaborazione tra le parti è forte e produttivo», ha detto il presidente dell'Eurogruppo Dijsselbloem.

Sul 2% di austerità preventiva il ministro delle Finanze Tsakalotos abbozza un qualche freno, dicendo che: «la legge greca non consente di approvare in parlamento misure preventive». Più che una vera resistenza, il solito tentativo di salvare la faccia. Così Vittorio Da Rold sul Sole 24 Ore: «In effetti si tratta di trovare una forma giuridica che consenta a Fmi ed europei di essere rassicurati, senza andare contro il diritto nazionale greco che non prevede misure capestro di questa natura».  

Insomma, da una parte la sostanza - la garanzia ai creditori - dall'altra la forma, per consentire a Tsipras e compari di non sputtanarsi troppo. 

E il debito, il famoso debito che doveva essere tagliato, come rassicuravano gli tsiprioti d'Italia che mesi fa scrivevano tanti articoli come se avessero loro le forbici in mano?

Ecco, parrà forse strano a costoro, ma anche stavolta l'ha avuta vinta Berlino. «I ministri sono d'accordo per escludere il taglio nominale del debito», ha detto Dijsselbloem. Certo - tanto quel debito alla fine non potrà mai essere ripagato - si accetteranno forse altre misure, come l'allungamento delle scadenze, la riduzione dei tassi, magari nuovi periodi di "grazia". Ma il taglio nominale no, perché la legge dell'euro può ammettere perdite, ma non la violazione dei "principi" sui quali si fonda il sistema eurocratico.

Ricapitoliamo: 1) l'austerità continua e si intensifica; 2) il laccio al collo della Grecia si stringe sempre di più; 3) in quanto alla "ripresa", ed alla diminuzione della disoccupazione, meglio non parlarne, dato l'effetto catastrofico delle nuove misure; 4) il debito resta lì nella sua imponenza, e nel 2016 è previsto in aumento di 6 punti di Pil, dal 179 al 185%!

Ecco il capolavoro di Tsipras! Un autentico massacro sociale frutto del tradimento di luglio. E qui apriamo una breve digressione. Siamo tra quelli che tendono a non usare la categoria del "tradimento" in politica, ma in questo caso - visto l'uso che Tsipras ha fatto dell'enorme successo del NO al referendum del 5 luglio - siamo costretti a fare un'eccezione.

Quello del capo di Syriza è stato un autentico tradimento. E per cosa, poi? L'austerità viene addirittura intensificata, la democrazia uccisa dal commissariamento del Paese, l'equità calpestata, basti pensare che il governo di Atene ha già accettato di abbassare di nuovo la soglia di reddito esentasse, colpendo ancora una volta i più poveri.

Tutto questo per che cosa? Per rimanere nell'euro, per restare cioè al guinzaglio di una banda di aguzzini che si riunisce periodicamente a Bruxelles. 

Sindrome di Stoccolma? No, questa può funzionare al massimo con qualche individuo, e non sarebbe comunque una giustificazione. Qui siamo di fronte ad un governo, un partito, un ceto politico che a questo punto porta per intero e senza attenuanti la responsabilità politica di aver condotto un intero popolo al disastro. E, peggio, di averlo fatto proprio nel momento in cui quello stesso popolo gli aveva dato la forza per rompere la gabbia. 

Che stiano pure aggrappati alla loro ridicola sedia governativa, dalla quale non fanno altro che ritrasmettere gli ordini ricevuti dai loro burattinai euro-atlantici. Possono restarci ancora per un po', ma il giudizio della storia sarà per loro tremendo e senza appello.

lunedì 25 aprile 2016

SALONICCO: P101 PARTECIPA ALL'INCONTRO PROMOSSO DA LAPAVITSAS

[ 25 aprile ]

Domani e dopodomani, nella città greca di Salonicco, si svolgerà un'importante conferenza dal titolo QUALE FUTURO PER L'EUROPA.

Promuove l'incontro EreNSEP, il network fondato dal noto economista greco Costas Lapavitsas [nella foto].


Fitta la scaletta dei seminari e dei dibattiti. Vedi locandina più sotto.
L'evento si concluderà Mercoledì con gli interventi di Lapavitsas e Oskar Lafontaine.
Nel testo di convocazione dell'incontro si legge: 
«EReNSEP ha lo scopo di contribuire ad una vera strategia alternativa per l'Europa. L'austerità si è dimostrata disastrosa. Sono necessarie politiche nuove per la crescita, l'occupazione e l'aumento dei redditi. Il peggioramento delle disuguaglianze sociali chiede una forte redistribuzione dei redditi. Inoltre, l'Unione economica e monetaria europea ha fallito, il che rende necessario mettere a punto nuovi accordi monetari per i singoli paesi e per l'Europa nel suo complesso».
Il Movimento di Liberazione Popolare - P101, avendo ricevuto l'invito dal comitato organizzatore, sarà presente con una propria delegazione, così come ci saranno esponenti del Coordinamento delle sinistre no-euro europee. 

Tra i partecipanti ci saranno delegati di diverse organizzazioni politiche tra cui i catalani di Candidatura d'Unitat Popolar (CUP), il Parti de Gauche in Francia, gli sloveni dell'Iniziativa per il socialismo democratico (IDS), Die Linke della Germania, ed altri.

Ricordiamo ai lettori che come P101 partecipammo nel gennaio scorso, a Parigi, al "SUMMIT DEL PIANO B" e che fu proprio in quell'occasione che, oltre ad aver avuto modo di ascoltare e conoscere Lafontaine e lo stesso Lapavitsas, venne chiaro che non esiste un solo "piano B", visto che Varoufakis se n'è andato per la sua strada ed ora perora piuttosto il "Piano A", vale a dire vuole non solo "democratizzare l'Unione europea" ma evitare la dissoluzione dell'euro.

L'UNIONE EUROPEA E GLI STATI UNITI D'AMERICA: IPSE DIXIT di Piemme

[ 25 aprile ]

Com'è noto uno degli argomenti che certa sinistra europeista — in perfetta sintonia con le destre liberiste — usò nel passaggio all'Unione europea, fu che per poter "competere" e vincere la sfida della globalizzazione dei mercati, occorreva lasciarsi alle spalle l'Italietta e procedere a tappe forzate (tra cui la moneta unica) verso un'entità sovranazionale. Così non solo saremmo stati tutti meglio ma, come disse Prodi nel 1999: «Con l'euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più».
Siccome è sotto gli occhi di tutti quali siano stati i risultati reali, non c'è più bisogno di smascherare quanto ingannevole fosse questa narrazione ideologica.

Per ipnotizzare e turlupinare l'opinione pubblica venne poi utilizzato un secondo argomento. Quello per cui l'Unione avrebbe liberato gli europei dalla relazione di sudditanza politica, strategica ed economica rispetto agli Stati Uniti d'America.
Eravamo in pochi, in quegli anni, a sostenere che quella fosse una fandonia, un pretesto per addomesticare anzitutto il "popolo di sinistra" con profondi sentimenti antiamericani, da una parte, e quei settori oramai molto minoritari della destra nazionalista.
Erano gli anni in cui anche nella "sinistra radicale" c'era chi, pur condannando come "imperialistico" il disegno europeista, riteneva in effetti che esso si stesse conformando, nella sfida per il predominio mondiale, come "polo antagonista" a quello americano. Di qui la profezia che l'euro avrebbe presto rimpiazzato il dollaro Usa come principale moneta globale di riserva.
Eravamo in pochi, mentre la Ue andava prendendo forma, a sostenere il contrario, che l'Unione europea, essendo stata pensata dai suoi architetti sin dagli anni '40-'50 del secolo scorso e costituendosi anzitutto come vonhayekiana comunità economica di libero scambio —quindi entità federale senza Stato— era perfettamente funzionale al disegno egemonico nordamericano.

Una prova fattuale l'avemmo man mano che l'Unione europea, dopo l'89, si allargava. Per aggregarsi al nucleo costitutivo dell'Unione, formato dai paesi NATO, ogni nuovo entrato ha dovuto prima aderire alla NATO medesima. L'Unione si è costituita e la NATO, protesi della supremazia americana, non solo non ha fatto passi indietro ma si è rafforzata, né alcuna base americana (e la Germania è il Paese che ne ha di più) è stata chiusa ma altre ne sono sorte.

Che dalle parti degli Usa fossero stati scettici sul passaggio alla moneta unica è cosa nota. Gli yankee sono pragmatici, e mai si sarebbero legati le mani scolpendo nei trattati costitutivi di un'unione economica e monetaria gli scervellati dogmi tedeschi della soglia invalicabile 60% e del 3%. Aver scambiato questa sensata censura come spia di un'opposizione americana alla nascita della Ue è stato come prendere fischi per fiaschi, un errore politico molto grave. 

Oggi abbiamo l'ultima prova fattuale. Si tratta di quanto affermato da Obama l'altro ieri, 22 aprile, in occasione della sua per niente casuale visita nel regno Unito. Non casuale perché com'è noto il prossimo 23 giugno i cittadini britannici voteranno nel referendum per decidere se restare o uscire dalla Ue. Quale sia la posizione delle cupole bancaria, finanziaria e industriale inglese sappiamo: restare nella Unione europea. Idem per quanto concerne le frazioni decisive dei due partiti sistemici, tory e labour. Tuttavia i sondaggi non escludono una vittoria dei favorevoli alla Brexit. 
Cosa ha detto Barak Obama e con parole che sono rimbombate in tutto il mondo?
Citiamo:
«Esistono fra noi [americani ed inglesi, Ndr] relazioni speciali, siamo più che amici e fra amici occorre essere onesti. Ci interessa che la Gran Bretagna resti nell'Unione europea perché preferiamo negoziare con un solo grande blocco, l'Unione, non con tanti soggetti. E perché crediamo che Londra sia più forte dentro l'Europa che non fuori».
Non è solo un'altra prova fattuale tra le altre dell'interesse strategico a stelle e striscie per la Ue, è una vera e propria pistola fumante. Significativo l'aggettivo usato da Obama per definire la Ue: "grande blocco", ovvero un mercato unico, un'unione economica, non un vero e proprio Stato.

Come se non bastasse, Obama ha sparato un vero e proprio siluro alle frazioni euroscettiche dei tory e della borghesia inglese che invocano un accordo commerciale bilaterale con gli Usa una volta abbandonata la Ue, Obama ha minacciosamente detto:
«Davanti ad un'eventuale Brexit non regaleremo alcuna corsia preferenziale di commercio. La daremo prima all'Europa».
Chi ha orecchie per intendere intenda.

Vedremo cosa dirà Obama alla Merkel. Al netto delle polemiche sorte per le intercettazioni Cia e Nsa delle comunicazioni dei politici tedeschi (e della stessa Merkel), c'è da scommettere che Obama vorrà ricordare alla Cancelliera non solo che gli Usa stanno con la Ue; gli dirà che a loro va bene anche una Ue ad egemonia (economica) tedesca, e che va scongiurato ogni "rigurgito nazionalista". Obama è andato a Londra per puntellare il traballante Cameron, e va in Germania per assicurare l'appoggio Usa al grande capitalismo tedesco, in larga parte di fede eurista, e dunque per dire alla Merkel che dovrebbe tenere sotto controllo il suo ministro delle finanze e dunque... Viva la Ue, viva la NATO, viva il Ttip.


Ps: ore 10:30 del 25 aprile

Scrive Mario Platero su Il Sole 24 Ore di oggi [Vertice Obama-Merkel. I timori Usa per la fragilità dell’Europa] riguardo all'incontro Obama-Merkel:

«Chi si ostina a credere che l'America tema l'Unione Europea come possibile concorrente globale è fuori strada. I veri concorrenti dell'America sono la Cina, la Russia, in qualche misura l'India. I veri problemi americani sono la crisi in Medio Oriente, da quella in Arabia Saudita al terrorismo dell'Isis. Quando Obama dice che l'America vuole un’Europa unita forte non fa solo retorica, lo dice ormai quasi con un senso di urgenza assoluta perché gli Stati Uniti hanno bisogno dell'Europa e di un'Europa forte per contrastare le sfide geopolitiche e quelle all'ordine internazionale.
Per questo fra i molti infortuni di politica estera dell'amministrazione Obama, una spaccatura dell'Europa diventerebbe per l'America uno dei più gravi passi indietro sul piano internazionale e una macchia per questo presidente che disse all'inizio del mandato che sarebbe stato il “primo presidente del Pacifico”, convinto che il fronte transatlantico fosse ormai talmente solido da non poter essere messo in discussione. Certo la Nato resta, ma nel mondo dei “blocchi” l'Europa non può fare molti passi indietro. Ne va della nostra sicurezza, ma anche di quella americana».


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