sabato 30 novembre 2013

9 DICEMBRE: RIVOLTA REAZIONARIA? di Segreteria nazionale Mpl

30 novembre. La mobilitazione del 9 dicembre, partita in sordina, si va facendo largo, raccogliendo l'adesione spontanea di migliaia e migliaia di cittadini. Praticamente in ogni provincia del Paese si sono formati o si vanno formando comitati e coordinamenti decisi a portare in strada la rabbia popolare e la sete di giustizia. 

Chi come noi partecipa attivamente alla preparazione di questa mobilitazione ha potuto verificare che non si tratta solo di indignazione morale o di cieca rabbia. C'è dietro una consapevolezza tutta politica. Che vogliono coloro che scenderanno in strada? (1) cacciare il governo e farla finita coi partiti, di destra e sinistra che ci hanno accompagnato al baratro; (2) uscire dall'Unione europea, farla finita con l'euro-dittatura e tornare alla sovranità monetaria, ovvero a quella popolare e nazionale; (3) infine, e questo non è meno importante, li unisce tutti la consapevolezza che per cambiare il corso delle cose occorre una generale sollevazione popolare dal basso, che rispettando le compatibilità sistemiche resteremo sempre prigionieri.

Alle porte delle elezioni del febbraio scorso, spiegando le ragioni della nostra decisione di votare M5S scrivevamo che una forte affermazione elettorale di M5S: 
«... darà forza e coraggio al popolo lavoratore, lo farà uscire dall’apatia e dallo stato d’impotenza. La spallata che verrà dalle urne sarà il segnale di un risveglio popolare, risveglio che è la condizione per invertire la rotta, per cacciare una volta per tutte una casta di politicanti corrotti e venduti, per creare le condizioni di un’alternativa di governo e di sistema. (...) Ognuno deve sapere che entriamo in un periodo ancor più turbolento, e che chi comanda è pronto a tutto pur di impedire una svolta. Il popolo lavoratore questo lo sa, deve quindi essere consapevole che una vittoria elettorale non sarà sufficiente, che dopo la spallata sarà necessario mobilitarsi, agire, lottare in milioni, che solo una sollevazione popolare potrà finalmente evitare la catastrofe del paese». [Una spallata per invertire la rotta, 19 febbraio 2013 ]
Dopo la spallata elettorale, dicemmo, verrà quella sociale.

La mobiltazione del 9 dicembre potrebbe essere, dopo alcuni segnali visti ad ottobre, un importante passo verso questa "spallata sociale".

"Si tratta di bottegai, di piccoli imprenditori, di ex-leghisti e ed ex-berlusconiani... come potete mischiarvi con certa gente?". Questo ci sussurra certa sinistra mentalmente incartapecorita, prigioniera di consunti miti ideologici operaisti.

Che in questo movimento che sfocerà nella mobilitazione che inizia il 9 dicembre ci siano, e per aadesso in prima linea, strati della piccola borghesia, non c'è dubbio. Che in questa polvere d'umanità massacrata dalla crisi allignino tanti pregiudizi se non proprio posizioni politiche destrorse, per noi, è chiaro. Non è vero, tuttavia, che esse siano dominanti. Alla base c'è invece un sincero comune sentire sovranista democratico —attestato dall'appello che indice la mobilitazione medesima. Ciò è confermato tra l'altro dal fatto che, se i "bottegai" sono stati in molti casi i primi a farsi avanti, molti giovani precari, disoccupati (quasi tutti senza precedenti esperienze politiche), stanno ora partecipando alle riunione preparatorie della mobilitazione e possono diventare la forza motrice della battaglia che si prepara.

Il compito dei rivoluzionari è di stare accanto a questi settori sociali che si ribellano, di innervare questo movimento di idee a proposte adeguate. Solo da dentro, eventualmente sulle barricate, dando l'esempio di determinazione e intelligenza tattica, portando la nostra esperienza, si conquista la fiducia di chi lotta, si possono far viaggiare le idee giuste, così contrastando gli avventurieri e i demagoghi reazionari che fanno capolino.

Chi sceglie di mettersi alla finestra, chi fa finta di niente, chi addirittura sputa addosso alla mobilitazione del 9 dicembre, lo voglia o meno, fa un favore non solo al regime (che si regge sulla pace sociale e l'apatia delle masse) ma proprio ai settori politicamente reazionari che agiscono nel movimento, lasciando loro aperta la strada per prendere la testa della rivolta sociale.

Chi condanna la mobilitazione del 9 dicembre non venga a dirci che è un "rivoluzionario". Può forse essere utile ricordare quanto disse Lenin:
«Ogni crisi rigetta tutto ciò che è convenzionale, strappa gli involucri esterni, spazza via ciò che è sorpassato, scopre le molle e le forze più profonde. (...) Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni e le esplosioni rivoluzionarie della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate ... non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione. 
La rivoluzione russa del 1905 è stata una rivoluzione democratica borghese. Essa è consistita in una serie di lotte di tutte le classi, i gruppi e gli elementi scontenti della popolazione. V'erano tra di essi masse con i pregiudizi più strani, con i più oscuri e fantastici scopi di lotta, v'erano gruppi che prendevano denaro dai giapponesi, speculatori e avventurieri, ecc. Obiettivamente, il movimento delle masse colpiva lo zarismo e apriva la strada alla democrazia, e per questo gli operai coscienti lo hanno diretto.
La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient'altro che l'esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti gli scontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente —senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione— e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale». [V. I. Lenin, Luglio 1916]

A chi si considera davvero rivoluzionario vogliamo ripetere quando andiamo da tempo dicendo. La rivoluzione che sta crescendo nelle viscere di questa società in decomposizione non sarà, per stare all'analogia, come quella del 1917, ma come quella del 1905, ovvero sarà oggettivamente una rivoluzione popolare e democratica contro il regime dell'euro-dittatura, per rovesciare il sistema oligarchico e plutocratico.

Dentro quindi la mobilitazione del 9 dicembre, affinché si allarghi, per sostenere che una volta cacciati i Quisling dal potere avremo un governo popolare d’emergenza che dovrà applicare solo poche ma incisive misure: (1) uscita unilaterale dall’eurozona, (2) rinazionalizzazione della Banca d’Italia, (3) emissione della nuova lira, (4) misure restrittive dei movimenti di capitali; (5) moratoria sul debito pubblico. Il tutto entro il quadro di una decisa difesa dei redditi e dei diritti delle classi lavoratrici.

Il socialismo —un sistema che utilizzi razionalmente le fonti da cui solo sgorga la ricchezza, la natura e il lavoro, non per il profitto di una esigua minoranza ma per il bene comune e la collettività tutta— è la sola alternativa al marasma capitalistico, ma esso non è dietro l'angolo, giungerà al culmine di una serie di difficili battaglie preliminari. Vinciamole!


La Segreteria nazionale del Mpl
30 novembre 2013

venerdì 29 novembre 2013

"GRANDE COALIZIONE" IN GERMANIA: BRUTTE NOTIZIE PER L'UNIONE EUROPEA

29 novembre. Nonostante l'ampia vittoria elettorale del 22 settembre, la Merkel dovrà governare assieme ai socialdemocratici. Dopo un negoziato durato settimane l'accordo per la terza edizione della "grande coalizione" è stato siglato il 27 novembre. 
I tedeschi, si sa, sono puntigliosi: il protocollo d'intesa consiste in ben 177 pagine! Ora questo accordo sarà sottoposto ad un referendun tra i 470mila iscritti alla Spd. L'insediamento del nuovo governo —che sarà presieduto dalla Merkel e vedrà 6 ministri della Spd, sei della Cdu e tre della Csu, col falco Wolfang Schäuble al suo posto—, è rimandato al 14 dicembre. 
I socialdemocratici, scottati dalla pesante sconfitta elettorale del 2009 (dopo appunto quattro anni di politiche austeritarie e di alleanza coi democristiani), hanno ottenuto tre concessioni principali a tutela dei lavoratori dipendenti:  un salario minimo di 8,50 euro l'ora, la riduzione dell'età pensionabile a 63 anni con 45 anni di contributi, il tetto alla crescitta degli affitii nelle grandi città. Contrariamante alle speranze degli euristi di sinistra nostrani, quest'accordo è una nuova pericolosa mina per il futuro dell'eurozona
Lo spiega bene la Cerretelli su Il Sole 24 Ore del 28 novembre


LA RITIRATA D'EUROPA
di Adriana Cerretelli

«Sono anni che lo spirito europeo ha preso una brutta piega in Europa. Un quinquennio di crisi dell'euro poi, se non l'ha distrutto, ci è andato molto vicino. Quella pericolosa deriva ora però fa un salto di qualità ulteriore e spudorato: da stato d'animo diffuso si sostanzia in azioni, politiche e leggi nazionali. Tutte anti-europee e anti-mercato unico.
La disgregazione esce dalle parole per entrare nei fatti concreti. Paradossalmente, tra l'altro, mentre anche la retorica ufficiale tedesca celebra l'uscita della moneta comune dalla "terra incognita" per approdare su lidi più sicuri. L'involuzione colpisce in Germania come in Gran Bretagna ma il contagio lambisce anche Austria, Olanda e Paesi scandinavi, il pianeta dei ricchi dove nazionalismi ed estremismi sgomitano più che altrove.

Mentre si sgrana senza fare scalpore, c'è poco da stupirsi se l'Europa da tempo ha smesso di essere la calamita del continente. Al punto da ritrovarsi snobbata, sul fronte Nord, dalla piccola Islanda già impegnata nei negoziati di adesione e, su quello orientale, dalla minuscola Armenia nonché dalla grande Ucraina dopo ben sei anni di trattative per arrivare a un accordo di associazione e libero scambio.
La disoccupazione in Europa


Colpa dei ricatti di Vladimir Putin? Certo. Anche negli anni '90 però la Russia aveva disperatamente remato contro un altro partenariato orientale della Ue e della Nato senza però riuscire a fermare l'allargamento a Est di entrambe. Altri tempi, altri leader, altra Europa (e altra America), altri investimenti politici e finanziari nell'avventura della riunificazione europea.

Se oggi l'Europa perde sempre più consensi, seduce sempre meno in casa i propri cittadini, figuriamoci fuori. Ma il sentimento non è ingiustificati. Gli schiaffi non sono per caso. La cronaca di queste ore accumula nuovi segnali di sgretolamento dell'edificio europeo, eroso nelle sue fondamenta da egoismi nazionali e logiche di arroccamento.
Che dire infatti della patto costitutivo della grande coalizione in Germania che finalmente sblocca oltre sei mesi di paralisi della vita europea ma al tempo stesso annuncia l'imposizione di un pedaggio sulle autostrade tedesche applicabile ai soli stranieri che le percorrono? Misura discriminatoria, quasi certamente alla fine verrà bocciata da Bruxelles ma il fatto stesso che sia stata concepita e blindata nel patto di coalizione in barba al mercato unico e ai suoi principi di libera circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e dei servizi, la dice lunga sul modo in cui oggi a Berlino si guardano e gestiscono macchina e responsabilità europee.

I nuovi mini-standard ecologici per l'auto Ue, le resistenze all'uso dell'anti-dumping contro i cinesi, quelle per impedire la tutela del "made in", il bilancio pluriennale Ue ridotto in termini reali sono alcune delle altre facce degli egoismi industriali e/o dello strisciante disimpegno tedesco in Europa. Del resto chi si illudeva che il ritorno dei socialdemocratici al governo avrebbe ammorbidito le politiche di rigore di Angela Merkel si ritrova smentito su tutta la linea: niente allentamenti, né mutualizzazione dei debiti né solidarietà finanziaria Ue nell'unione bancaria se non come ultimissima spiaggia. Silenzio sulla crescita europea (che non c'è). Invece contratti Ue vincolanti sulle riforme degli altri.
Il Pil in Europa nel 2010


Forse la ritirata inglese è meno scandalosa perché in fondo da anni ampiamente mitridatizzata dal tessuto europeo. Però fa ancora un certo effetto sentire David Cameron annunciare futura libertà di movimento "ponderata" per gli immigrati Ue - non extra-comunitari - a poche settimana dalla fine delle restrizioni in vigore per rumeni e bulgari. Dal 2014 flussi e test di eligibilità più regolamentati per gli aiuti pubblici a alloggi e disoccupati. Per i nuovi arrivati niente sussidi di disoccupazione per tre mesi. Superato il test, sussidi solo per sei mesi, a meno che non dimostrino di avere serie prospettive di lavoro. Espulsione per senza tetto e mendicanti con divieto di reingresso per un anno. Idee analoghe, secondo il premier inglese, sono in gestazione in Germania, Olanda e Austria.

Europa, se ancora ci sei, batti un colpo, verrebbe da dire. Già, ma quale Europa? E poi a chi rivolgere l'appello?»


Fonte: Micromega

giovedì 28 novembre 2013

DECADENZA DI BERLUSCONI: NULLA DA FESTEGGIARE di Pasquinelli Moreno

RIMUOVERE IL TABÙ DELLA QUESTIONE NAZIONALE

27 novembre. Se fosse vero che ieri il Senato, votando per la "decadenza" da parlamentare di Berlusconi avesse posto fine allo psicodramma, allora sì, allora avremmo mestamente festeggiato. Lo avremmo fatto per due semplici ragioni. La prima è che avremmo avuto un nemico giurato in meno, la seconda è che il blocco avversario più importante, quello degli armigeri dell'euro-dittatura col Pd in prima linea, sarebbe stato privato del principale argomento con cui ancora riesce ad ingannare tanti cittadini ed ottenere il loro consenso —alcuni davvero per rabbindolarli, altri, i ceti sociali che con l'euro si sono ingrassati, per assecondarli.

Ma Berlusconi non esce affatto di scena, ne rimarrà anzi al centro, da guastafeste indistruttibile. Ragione per cui avremo ancora tra i piedi il più indigesto frutto del berlusconismo: l'antiberlusconismo. C'è quindi poco da festeggiare, tanto più perché la momentanea umiliazione di Berlusconi non da un vantaggio alle forze antagoniste bensì a quelle sistemiche.

Ma come, ci chiederanno allibiti tanti compagni ossessionati dal Berlusca, voi non lo detestate? E come non potremmo detestarlo? Lo odiamo anzi, perché non solo rappresenta un crasso e picaresco capitalista. Lo odiamo per il ripugnante mondo valoriale e simbolico che incarna. Odio che non è affatto invidia, come a Lui piace pensare. L'invidia infatti si nutre di ammirazione.

A questi compagni rispondiamo che accanto al piano etico-valoriale e morale ce n'è uno squisitamente politico che, pur essendo connesso a quello, in sede di giudizio, va tenuto distinto dal primo. La battaglia politica è, ricordiamolo, la disciplina o l'arte di cambiare la società, quindi tattica e strategia per mutare i rapporti di forza, per indebolire il fronte avversario e, di converso, rafforzare il proprio.

Se è così vale il principio che è sempre meglio avere un nemico invece che due. La devastazione sociale causata dalla crisi e quindi anche dalle politiche euriste, ha indebolito il blocco dominante che fa dell'euro un totem e dell'Unione un dogma. Questo blocco è oggi debole, lo diventerà ancor di più col tempo, così che potrà essere battuto e mandato in frantumi; sconfitta che potrebbe finalmente aprire la via, attraverso una generale sollevazione popolare, ad un profondo cambiamento sociale. 

Il problema è appunto che, come da tempo andiamo sostenendo, il fronte berlusconiano, dopo tanti stop and go, potrebbe esso entrare a gamba tesa nella battaglia, ficcandosi tra noi e il blocco dominante  impugnando la bandiera della sovranità politica, dell'abbandono dell'eurozona. Non dopodomani ma oggi, visto che siamo alle porte della campagna per le elezioni europee, che saranno il decisivo banco di prova per verificare quanto diciamo. Le frattaglie berlusconiane hanno già fatto questa scelta di campo: la Lega Nord, Fratelli d'Italia, La Destra. Forza Italia reloaded, potrebbe fare altrettanto, diventando il perno di un blocco sociale di massa reazionario.

Un blocco sgangherato, un'accozzaglia di liberisti e statalisti, di nazionalisti e globalisti, ma con la potenza mediatica e finanziaria del Berlusca e usando linguaggi demagogici e nazionalisti punteranno a rappresentare e mobilitare il sempre più forte disagio contro le politiche austeritarie ed euriste, una rabbia che non dilaga solo tra le file del proletariato e del ceto medio pauperizzato ma pure in quelle di strati borghesi che non hanno saputo o voluto usare i vantaggi forniti a suo tempo dall'euro per darsi alla speculazione finanziaria. 

Una simile scesa in campo potrebbe essere letale per le forze sovraniste rivoluzionarie e democratiche ancora deboli e minoritarie. A quel punto, dato il declino irrreversibile del blocco eurista, le destre riorganizzate (o ciò che potrebbe venir fuori dal loro seno) potrebbero loro pilotare e gestire l'uscita dall'euro, con le conseguenze sociali e politiche che ognuno (tranne alcuni intellettuali in cerca d'autore e privi di scrupoli) può facilmente immaginare —nel senso che le conseguenze dell'inevitabile shock sarebbero fatte pagare salate al mondo del lavoro salariato. Per non parlare del rischio di una svolta isituzionale decisamente autoritaria, che come sappiamo è nel Dna dei berluscones.

L'uno divisosi in due significa che avremo a che fare con due nemici, non uno soltanto.

Ciò avrà delle implicazioni enormi per le forze sovraniste rivoluzionarie e democratiche. Non occorre un grande sforzo d'immaginazione per prevedere che una buona parte dell'area sovranista che in questi ultimi due anni, anche grazie a noi, è venuta emergendo, sarà attratta e satellitata dalla calamita belusconiana. Certi amici di oggi diventeranno nemici. Se non accadrà il contrario, il distacco di  pezzi importanti della sinistra dalla gabbia europeista, il risveglio dal loro sonno ipnotico, la lotta sarà impari e la svolta reazionaria di cui è gravida la società italiana (come del resto tutte in Occidente) da possibile diventerà altamente probabile. A quel punto saremo già entrati in un'altra fase, quella della resistenza democratica contro l'avventura reazionaria.

Non per questo i nostri detrattori hanno ragione nel sostenere che la battaglia sovranista per liberarci dall'euro-regime non va impugnata perché così facendo non faremmo che agevolare la possibile svolta reazionaria. Non si combatte questa minaccia facendo gli esorcismi, o addirittura mettendosi sotto la sottana  delle oligarchie euro-globaliste e delle loro protesi politiche locali. Ciò otterrebbe l'effetto contrario, equivarrebbe a lasciare campo libero al moto reazionario. Si combatte questa minaccia, ben al contrario, occupando la prima linea della lotta per riconquistare la sovranità nazionale e, con essa, quella democratica e popolare, diventando insomma i campioni della battaglia per uscire dall'euro e difendere la Costituzione.

Non è né plausibile né ammissibile che a causa del rischio futuro di una svolta reazionaria all'insegna di un nazionalismo fascistoide si dimentichi che oggi il nemico principale è fino a prova contraria il regime eurista, oligarchico, liberista e globalista. E' esso che occupa tutti i gangli del sistema: finananziari, bancari, industriali, culturali e istituzionali.

Fa ribrezzo, in molte zone della sinistra, il solo alludere alla questione nazionale. Assistiamo così ad uno strano connubio, ad un vero e proprio inciucio tra i settori politici istituzionali asserviti alle oligachie finanziarie (per le quali le nazioni e i loro ordinamenti sono catene da spezzare), e interi pezzi delll'estrema sinistra extra-isituzionale che condannano a priori il concetto di nazione in nome di un malinteso internazionalismo. Questo connubio va spezzato. Non è possibile che forze antagoniste genuine fungano da quinta ruota del carro dei veri dominanti.

Il tabù della questione nazionale va rimosso. Prima è meglio è. E' sotto gli occhi di chi voglia vedere che il nostro Paese sta muorendo sotto il giogo dell'euro-regime; che col ricatto del debito esso subisce un embargo di fatto; che è stato soggiogato come se avesse scatenato e perso una guerra, obbligato quindi a pagare umilianti "riparazioni". L'Italia è stata privata della sua indipendenza effettiva, governata da dei Quisling che obbediscono a poteri esterni sovraordinanti, incaricati di spennare popolo e naziona affinché i debiti siano saldati.

Tutto questo, seppure in modo ancora confuso, sta facendo capolino tra i cittadini, destinato a diventare senso comune. Questa percezione si manifesta già in tutti i focolai di lotta che stanno accendendosi qua e la. Questo senso comune pulsante e ancora primitivo, non c'è dubbio, sarà un collante delle future battaglie sociali. Occorre incontrarlo per puntarlo contro i dominanti invece di fare gli scongiuri e sptargli addosso; attraversarlo per innervarlo di contenuti rivoluzionari, democratici e socialisti, ingaggiando una lotta senza quartiere contro il fascistume che farà leva sui pregiudizi e i sentimenti sciovinisti e xenofobi che allignano tra le masse, senza confondere perciò le masse con i demagoghi reazionari che vorrebbero mettersi alla loro testa.

Come già detto si può essere socialisti e libertari, internaziomalisti e patrioti.





mercoledì 27 novembre 2013

CONGRESSO DI RIFONDAZIONE: LA TERZA MOZIONE di Tommaso Roselli


27 novembre. Dal 6 all'8 dicembre, in quel di Perugia, il Prc svolgerà il suo IX. Congresso nazionale. Due fatti nuovi di una certa importanza. Il primo è un emendamento al documento di maggioranza (primo firmatario Ugo Boghetta, che sarà al convegno di Chianciano Terme di gennaio) che chiedono l'uscita del Paese dall'euro e che pare abbia raccolto ampi consensi nei congressi di circolo. Il secondo è la comparsa di un documento di minoranza (primo firmatario il toscano Sandro Targetti, nella foto in basso), anche in questo caso si chiede l'uscita dall'euro. Qualcosa finalmante si muove nella sinistra che resiste.


«Lo scrutinio dei voti dei congressi di circolo è quasi ultimato. Il primo documento, della maggioranza uscente di Ferrero, che molto probabilmente verrà confermata, ha ottenuto il 70% delle preferenze. Il secondo, dei trotskisti di FalceMartello, aderente alla Tendenza Marxista Internazionalista, ha preso l' 11%, peggiorando il dato dell'ultimo congresso. Il restante 19% e' andato alla mozione tre, quella degli Autoconvocati, l'unica novità' di questo congresso, che ha ottenuto un successo inaspettato. 
Sandro Targetti

Infatti gli Autoconvocati non sono una corrente organizzata come FalceMartello, o la maggioranza ferreriana, o "Essere Comunisti", che ancora vogliono l'alleanza con il centrosinistra. Si tratta di un area di compagni critici della dirigenza attuale di Rifondazione che hanno presentato un documento grazie ad una rapidissima raccolta di firme, visto che la maggioranza aveva alzato il numero di membri del parlamentino nazionale per ostacolare la nascente opposizione. 


Il documento si basa su "Aqui no se rinde nadie" (qui non si arrende nessuno", presentato nei circoli solo a luglio, ed è stato integrato con contributi provenienti dalla base. La differenza principale con il doc. 1, con cui condivide la linea per l'alternativa al centrosinistra, riguarda il futuro del più grande partito comunista d'Italia (più di 30.000 iscritti e circoli in tutto il territorio nazionale). Infatti la mozione ferreriana propone la creazione di un nuovo soggetto politico della sinistra alternativa, con adesione per testa, che marginalizzarebbe Rifondazione. 

Gli Autoconvocati propongono invece un fronte anticapitalista in cui il partito conserverebbe la sua autonomia e identità. Altre particolarità del doc. 3 sono la proposta di uscire dall'euro, che se perseguita aprirebbe agli autoconvocati nuovi spazi politici, l'organizzazione in cellule sui posti di lavoro e l'individuazione di una linea sindacale comune a tutti i militanti comunisti membri di un organizzazione sindacale. Il partito deve cambiare, questo il messaggio degli Autoconvocati, forse l'ultima speranza per rilanciare Rifondazione ...».

* Fonte: Bentornata Bandiera Rossa

martedì 26 novembre 2013

la sinistra e l'euro (14) L'EURO, FATTORE DI DISUNIONE EUROPEA E DI DECLINO DELL'ITALIA di Emiliano Brancaccio

26 novembre. Emiliano Brancaccio (nella foto), docente di Fondamenti di Economia politica e di Economia del Lavoro all’Università del Sannio, lancia l’allarme: “E’ in atto la ‘mezzogiornificazione’ dei Paesi periferici europei. L’esito finale di questo processo potrebbe essere l’implosione stessa di tutto il sistema di Eurolandia”.

D. Lei parla di ‘mezzogiornificazione’ dell’Europa: di che cosa si tratta?

R. L’espressione ‘mezzogiornificazione’ è stata coniata dall’economista americano Paul Krugman, ma il suo significato profondo può esser fatto risalire ad alcuni economisti italiani, tra cui Augusto Graziani. Essa indica che il dualismo economico che ha caratterizzato i rapporti tra il Nord e il Sud Italia si sta riproponendo oggi, su scala allargata, nei rapporti tra i Paesi ‘centrali’ e i Paesi ‘periferici’ di tutta l’Unione monetaria europea. 


La ‘mezzogiornificazione’ è in atto o è terminata con l’unificazione europea?

La ‘mezzogiornificazione’ è tuttora in atto. La nascita della moneta unica europea l’ha accentuata e la crisi iniziata nel 2008 le ha impresso un’ulteriore accelerazione. Basti guardare la forbice che si è venuta a creare tra gli andamenti dell’occupazione: mentre l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia negli ultimi cinque anni hanno perso oltre 6 milioni di posti di lavoro, la Germania ha visto crescere l’occupazione di un milione emezzo di unità. Lo stesso dicasi per le insolvenze delle imprese: tra il 2008 e il 2012 sono aumentate in Spagna del 200 per cento e in Italia del 90, mentre in Germania sono addirittura diminuite del 3 per cento. Si tratta di divergenze colossali, che dal Dopoguerra non hanno precedenti storici.

Colpa di quel profilo ‘liberista’ dei Trattati dell’Unione europea che denunciavate nella “Lettera degli Economisti” del 2010?

L’Ue è stata edificata su basi competitive, conflittuali. Il livello di coordinamento politico tra i suoi Paesi membri è ridotto ai minimi termini. Quasi tutto è affidato ai meccanismi del mercato, che in genere tendono ad accentuare i divari, non certo a ridurli. I Governi nazionali oggi non possono usare le tradizionali leve della politica economica, come il bilancio pubblico, la politica monetaria o la politica del tasso di cambio. Molti si sono augurati che questa sorta di ‘vincolo esterno’ imposto dai Trattati europei costringesse l’Italia e gli altri Paesi periferici dell’Unione a realizzare le riforme necessarie a modernizzare i loro apparati produttivi, in modo da renderli competitivi con quelli dei Paesi centrali. Ma questa speranza si è rivelata una mera illusione. Anziché creare convergenza fra i Paesi europei, il ‘vincolo esterno’ alle politiche nazionali ha favorito la divergenza, accentuando i divari economici che già sussistevano prima della nascita dell’euro.

Le autorità della Germania possono essere considerate responsabili di questi andamenti?

Le autorità di Governo tedesche si sono dimostrate incapaci di assumere un vero ruolo di leadership europea. La Germania, gigante economico, si comporta tuttora come un nano politico. La pretesa tedesca è di continuare a crescere al traino di altri Paesi, sfruttando la domanda di beni e servizi proveniente dall’estero. Ieri erano i Paesi periferici dell’eurozona a trainare la Germania, oggi le autorità tedesche sperano di trovare altre locomotive, situate all’esterno dei confini dell’Unione.

Quindi?

La conseguenza è che il Paese più forte dell’Ue, anziché espandere la domanda interna e fungere da volàno per lo sviluppo economico dell’intero Continente, preferisce attuare politiche di deflazione interna per ridurre le proprie importazioni e aumentare le esportazioni. Come abbiamo segnalato anche di recente nel “monito degli economisti” pubblicato il 23 settembre scorso sul Financial Times, questa strategia non è sostenibile. Ogni guadagno della Germania corrisponde a una perdita più che proporzionale per i Paesi periferici. La conseguenza è che l’Unione, nel suo complesso, continua a registrare un calo dell’occupazione, con effetti distruttivi sull’unità europea.

Su queste colonne avevamo già comparato la crisi dei Paesi mediterranei europei a una ‘questione meridionale’ ampliata a livello continentale: che potenzialità presenta questo modello interpretativo della crisi europea?

Tra i Paesi in crisi ve ne sono anche di extra-mediterranei, come ad esempio l’Irlanda. E alcuni paesi del ‘centro’ dell’Unione non se la passano benissimo, come ad esempio l’Olanda. In generale, però, l’idea di cogliere su scala europea una riproposizione del problema storico delle divergenze tra Nord e Sud Italia mi sembra corretta. Per lungo tempo il ‘meridionalismo’ è stato considerato una teoria polverosa, antiquata, superata dagli eventi. Stimati studiosi avevano addirittura suggerito di ‘abolire il Mezzogiorno’ dalle categorie interpretative delle vicende economiche nazionali.

E oggi?

Oggi invece possiamo cogliere dalla questione meridionale nuovi spunti per l’analisi del presente. Penso che se oggi recuperassimo la questione meridionale e la riproponessimo in chiave aggiornata e su scala continentale, potremmo fornire un’interpretazione della crisi europea molto più pregnante di quelle che vanno per la maggiore. Inoltre, conoscere la storia dei rapporti travagliati tra Nord Italia e Mezzogiorno aiuterebbe anche a indagare sui possibili sviluppi politici della crisi europea.

Noi meridionali dovremmo cioè farci carico di una previsione politica?

Essendo ben consapevoli di quelli che sono stati gli effetti deleteri di un irrisolto dualismo economico tra Nord e Sud Italia, noi meridionali in effetti abbiamo più elementi di altri per lanciare un allarme sui possibili effetti politici delle enormi divergenze economiche in atto: proseguendo di questo passo, i Paesi periferici dell’Unione potrebbero a un certo punto vedersi costretti ad abbandonare l’eurozona per cercare di contrastare gli attuali processi di desertificazione produttiva. 


* Fonte: Emiliano Brancaccio 
**intervista di Lauro Amendola su Il denaro del 16 novembre 2013

lunedì 25 novembre 2013

VERSO IL 9 DICEMBRE: CRONACA DELL'ASSEMBLEA DI VERONA di sollevazione

25 novembre. «L'Italia si ferma». Ieri a Verona l'assemblea dei coordinamento nazionale dei gruppi e movimenti che hanno indetto la mobilitazione del 9 dicembre. Un breve resoconto della delegazione del Mpl.

«Si svolta ieri, al palazzetto dello sport di Bovolone (VR), l'attesa assemblea nazionale organizzata dai promotori delle manifestazioni diffuse che avranno inizio alle ore 22 di domenica 8 dicembre. Ad attendere i convenuti, e a dare il senso della mobilitazione in corso (decine e decine di incontri si stanno svolgendo in questi giorni in tutta Italia), diversi trattori e camioncini imbandierati. Appesi un po' ovunque gli striscioni con lo slogan «9 DICEMBRE L'INIZIO DELLA FINE».

Quale sia la fine che viene invocata lo chiariscono senza ogni ombra di dubbio le decine di interventi che si sono succeduti dalle 10 alle 16,30: la fine di un regime che sta distruggendo l'economia del paese, mettendo sul lastrico milioni di famiglie. Tra queste, oltre a quelle di milioni di disoccupati, sottoccupati e precari, anche quelle di tanti lavoratori autonomi colpiti dalla crisi, dagli effetti della globalizzazione capitalistica e dalle politiche europee e governative.

Un settore, quello del lavoro autonomo, che ha iniziato ad organizzarsi e a lottare, come hanno dimostrato già due anni fa i Forconi siciliani [ il Movimento dei Forconi non c'entra nulla con Forza Nuova e si divise subito da Martino Morsello, Ndr]. E' questo il mondo che si è ritrovato nell'assemblea di ieri, un mondo che ha rotto definitivamente con le vecchie organizzazioni di categoria, spesso corrotte e sostanzialmente colluse con il regime.


Le 500 persone convenute a Bovolone - in prevalenza veneti, ma con la presenza di delegazioni di diverse altre regioni - hanno partecipato con calore a un'assemblea che molti dei presenti hanno vissuto come un vero punto di svolta. Avere alla presidenza i veneti della Life insieme ai Forconi siciliani di Mariano Ferro, con accanto i rappresentanti dei camionisti e degli agricoltori, ha dato il senso di quanto sta avvenendo. Un'unità semplicemente inimmaginabile fino a qualche tempo fa.

Senza dubbio, negli anni passati, molti dei presenti avevano dato il loro consenso alla Lega. Senza dubbio in tanti si erano riconosciuti nell'ideologia liberista che faceva del mitico nord-est il modello da imitare. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti. Ne è passata veramente tanta... E ieri, un'assemblea fatta in larga parte di mini e micro-imprenditori, ma tutti con le mani callose, si è trovata a discutere di come avviare la rivolta, come bloccare l'Italia, come riprendere la sovranità monetaria, come riappropriarsi della democrazia, come difendere la Costituzione...

Un calore particolare ha accolto le parole di Mariano Ferro, dei Forconi, che ha detto che il 9 dicembre inizia una battaglia, che ci saranno molte battaglie prima di vincere la guerra, ma che occorre partire, dare la scossa ai tanti che ancora sono in attesa. Ferro ha messo anche in guardia dalle provocazioni e dai tentativi di infiltrazione che certo verranno messi in atto. Questi tentativi (pare che ieri un cronista della Rai, presente a Bovolone, abbia mostrato un volantino di "Alba Dorata") verranno immediatamente stroncati.

Le provocazioni, del resto, vanno di pari passo ai tentativi di intimidazione. Già ieri, nel piazzale antistante al palasport, uomini della Digos annotavano diligentemente tutti i numeri di targa delle macchine parcheggiate.

Tra i tanti interventi della giornata, da segnalare anche quello dell'economista Nino Galloni, che dopo aver ricordato la sciagurata scelta degli anni '80 di dare i titoli del debito pubblico in pasto agli appetiti speculativi dei mercati finanziari, ha dato diverse indicazioni su quel che occorrerebbe fare per uscire dalla catastrofe sociale in atto.
L'appello ufficiale (clicca per ingrandire)

Nel nostro intervento, come Movimento Popolare di Liberazione, abbiamo portato il sostegno alla mobilitazione, richiamando la necessità di unire il lavoro salariato con quello autonomo, nella prospettiva di una sollevazione popolare che porti al rovesciamento del regime eurista, alla riconquista della sovranità popolare e democratica. Ma una sottolineatura l'abbiamo voluta fare sul tema dell'immigrazione. In risposta ad alcune affermazioni fatte nel corso dell'assemblea, e mettendo in guardia dai pericoli di divisione messi in atto dal sistema, abbiamo ricordato che gli immigrati sono le prime vittime della globalizzazione, e che il nostro nemico è a nord non a sud.

L'assemblea si è chiusa con il richiamo alla mobilitazione, intanto a quella delle prossime due settimane. Quattordici giorni di preparazione che vedranno tanti incontri, giorni nei quali certamente altre forze si aggiungeranno. Poi, con il dovuto anticipo, verranno date le indicazioni sui luoghi di concentramento nelle varie zone del paese. La scelta è quella di attuare presidi ovunque possibile, puntando sulla durata e sul coinvolgimento dei più ampi strati popolari.

Un'anziana signora ha detto che, essendo impossibilitata a partecipare ai presidi, darà comunque un proprio contributo, visto che: «qualche vaso di geranio potrò pure gettarlo anch'io».

domenica 24 novembre 2013

COSTANZO PREVE CI HA LASCIATO di Campo Antimperialista

24 novembre. E' con grande dolore che apprendiamo della scomparsa, dopo lunga malattia, del filosofo Costanzo Preve. Anzi, del Compagno filosofo Costanzo, poiché questo è stato ed è restato fino alla fine, malgrado la indegna campagna di fango con cui certa sinistra ha tentato di isolarlo a causa della sua indipendenza di pensiero. Una sinistra, come giustamente scrive il Campo, "in quanto a profondità di pensiero non gli arriva nemmeno alle ginocchia".




Nella notte del 23 novembre, all’età di settanta anni, è venuto a mancare Costanzo Preve.

Lo conoscemmo come intellettuale comunista a metà degli anni ’80, attraverso i suoi scritti, che leggevamo sulla rivista Marx101. Costanzo aveva nel frattempo preso le distanze dal suo maestro Luis Althusser, conosciuto da studente a Parigi negli anni ’60.

Alcuni di noi lo incontrarono nel 1990, in occasione di un congresso di Democrazia Proletaria. Era appena crollato il Muro di Berlino. Respinse la nostra proposta di diventare portabandiera dell’estrema sinistra. Malgrado ciò, quando prese forma poco dopo Rifondazione comunista, i diversi capi-corrente di Democrazia proletaria, anche approfittando della malattia che lo tenne temporaneamente lontano dall’agone politico, gli voltarono le spalle.  Essi non lo consideravano “affidabile”. Costanzo in effetti, ed è questa una caratteristica che lo distinguerà per sempre, era geloso della sua indipendenza intellettuale, rifiutandosi di fare “l’intellettuale di partito”, ovvero di mettersi al servizio di questo o quel ceto politico.

Guarito dalla sua prima malattia si rigettò in modo sistematico negli studi filosofico-politici, dando alla stampe alcuni volumi. 

 
Era giunto alle conclusioni a cui resterà fedele fino alla fine: 
(1) Il “comunismo storico-novecentesco” marx-leninista (fatti salvi alcuni essenziali contributi del maoismo (ma fino alla rivoluzione culturale), era morto e sepolto e nessuno lo avrebbe mai potuto resuscitare; 
(2) La teoria marxista restava uno strumento indispensabile per interpretare i fatti storico-sociali, ma andava superata in avanti, sottoponendola ad un processo di radicale de-costruzione; 
(3) Questa decostruzione doveva condurre alla rinuncia di due postulati filosofici marxiani che la storia aveva destituito di ogni fondamento scientifico, ovvero [a] che la tesi che la classe salariata aveva una capacità trans-modale si era dimostrata errata, vista l'incapacità di questa classe di fungere da levatrice del modo socialistico di produzione e [b] che occorreva sbarazzarsi delle forti dosi di utopismo marxiano, anzitutto dell’idea del comunismo come palingenesi universale e società egualitaria armonica e perfetta; 
(4) Da queste premesse giunse al paradigma che tanto scandalo suscitò a sinistra, ovvero che occorreva abbandonare la “dicotomia destra-sinistra” in quanto entrambe erano diventate maschere della globalizzazione imperialistica a predominio americano, una globalizzazione che veniva dipinta come una fase oramai post-capitalista, globalizzazione contro la quale si doveva lottare in ogni maniera, sostenendo le resistenze e le lotte di liberazione nazionali, a partire da quella palestinese.

Lo rincontrammo nel 1999, quando scese in campo contro l’aggressione NATO alla Jugoslavia e aiutò la causa antimperialista con brevi scritti polemici di rara efficacia.

Nell’estate dell’anno 2000 fu così nostro ospite al Campo Antimperialista di Assisi, di cui fu
Assisi agosto 2000. Costanzo a sinistra
uno dei protagonisti. Partecipò a tutti i Campi successivi, fino a quello del 2004 (vedi foto), come sostenne ogni passo della straordinaria esperienza antimperialista di quegli anni, passando per la prova del fuoco dell’appoggio alla Resistenza irachena (2003-2005).

Preve non diventò tuttavia un esponente del Campo, come noi, malgrado le dicerie in senso contrario, non diventammo “previani”. La più sincera comunanza nelle battaglie antimperialiste, che Costanzo abbracciò in modo coraggioso e indomito, non ci permetteva di accogliere tutti gli aspetti e le conseguenze del suo prolifico quanto aporetico pensiero.

Non condividemmo la tesi che la globalizzazione fosse andata fino al punto di conformare un sistema sociale post-capitalista; non condividemmo il suo cupio dissolvi della teoria marxista, né la furia iconoclastica contro quello che luì chiamava “comunismo storico novecentesco”. Non accettammo l’idea che fosse morta per sempre la “dicotomia destra-sinistra”. Abbiamo infine criticato la sua adesione ad un certo “geopoliticismo metafisico”, che lo ha condotto alla condanna delle sommosse popolari arabe dell’inverno-primavera del 2010-11.

Rifiutammo sempre, tuttavia, con tenacia, la vergognosa condanna all’ostracismo che Costanzo dovette subire da parte non solo degli intellettuali della sinistra sistemica ma pure di quella “radicale”, che in quanto a profondità di pensiero non gli arrivano nemmeno alle ginocchia. Fino alla fine abbiamo mantenuto con lui rapporti di amicizia e sincera solidarietà, fondati sulla reciproca stima, quella di chi resta irriducibilmente nemico dello stato di cose presente, di chi non negozia la propria indipendenza dal potere; rapporti diradatisi negli ultimi mesi, ma solo a causa del suo stato di salute.

Avremmo voluto esserti accanto compagno Costanzo, farti sentire la nostra vicinanza. La distanza non ce lo ha permesso. Ti saremo vicini custodendo la tua memoria, nella lotta per quel mondo nuovo che non hai mai smesso di pensare e di desiderare.

"Oggi la peccaminosità è compiuta e forse ci sono le precondizioni sociali perché una nuova forma di coscienza possa nascere. Io non la vedrò sicuramente, ma è molto possibile che le persone che hanno oggi venti o trent'anni non soltanto la vedano, ma ne siano anche protagonisti". [Costanzo Preve]

sabato 23 novembre 2013

GENOVA: LE CINQUE LEZIONI di Piemme

23 novembre. SCINTILLE DI RIVOLTA.
Il 19 novembre i dipendenti del trasporto pubblico di Genova sono entrati in sciopero "selvaggio", spontaneo e ad oltranza contro la decisione della Giunta comunale di privatizzare l'azienda Amt. Adesione al 100%. Cortei massicci che hanno attraversato al città. La Sala Rossa del consiglio comunale occupata. Il tutto con l'adesione di gran parte della cittadinanza.

Ieri notte Comune regione e sindacati hanno firmato un complesso accordo che comunque sospende la privatizzazione. Qui i termini. Mentre scriviamo, mattina del 23 novembre, è in corso l'assemblea dei lavoratori, che deve decidere se accettare o respingere.

La vicenda merita alcune veloci riflesssioni.
 
(1) I lavoratori genovesi hanno respinto la decisione di privatizzare l'Amt, speriamo per ragioni di principio, certamente perché essa contenva la minaccia di tagli e licenziamenti. A lasciarci la pelle sarebbero stati centinaia di addetti e, ovviamente, la qualità del trasporto pubblico locale. Di qui la ragione dello sciopero a oltranza e "selvaggio". Una forma di lotta considerata illegale da autorità e sindacati confederali. Ma anche la ragione della ampia solidarietà dei genovesi. Una lotta quindi per la difesa di un servizio pubblico, di un bene comune che, in quanto tale, non può soggiacere al criterio del profitto.

(2) I lavoratori hanno scelto la via dello sciopero spontaneo, ad oltranza e "selvaggio". Si
sono cioè autorganizzati fuori e contro le organizzazioni sindacali ufficiali. Lo hanno fatto non per amore della spontaneità ma perché costretti dall'ignavia dei sindacati, collusi coi vertici dell'azienda e coi partiti della giunta comunale. Lo hanno fatto "selvaggio", cioè senza preavviso e ad oltranza, perché nessuna protesta può essere efficace se si rispettano le regole mortificanti dell'autoregolamentazione imposte dalla legge, condivise e sottoscritte anche dagli stessi sindacati. Che solo la lotta dura paga lo dimostra la marcia indietro del sindaco e della giunta comunale
(3) Come si vede anche dallo striscione qui accanto, i lavoratori hanno respinto ogni strumentalizzazione partitica. "Non siamo né rossi né neri". C'è chi, a sinistra, farà spallucce rispetto a questo slogan "qualunquista". Noi, al contrario, cogliamo in questo sentimento
diffuso di disprezzo per i partiti (anche Grillo, sceso in strada, è stato invitato a mettersi in coda al corteo), non solo la cifra del distacco dei cittadini dai partiti istituzionali, ma un sentimento positivo di autonomia rispetto ai responsabili dello sfascio del paese e della catastrofe sociale che viviamo. La sollevazione popolare incipiente avrà di sicuro lo stesso segno anti-destra-anti-sinistra. Ciò è spia, per quanto politicamente "primitiva", di autonomia dai servi del sistema.
(4) La "sinistra"... Il sindaco genovese, lo "arancione" Marco Doria, venne eletto nel maggio 2012, in una lista di "sinistra". Per l'esattezza era il candidato indicato da Sel di Nichi Vendola. La coalizione comprendeva oltre al Pd, Sel, Idv, Prc e Pdci. Che questa giunta di sinistra abbia deliberato la privatizzazione del trasporto pubblico è l'ennesima dimostrazione che, all'atto pratico, questa sinistra e destra sono omologhe e intercambiabili. La lotta dei lavoratori del trasporto pubblico genovese è la conferma del divorzio tra questa sinistra e la sua teorica base sociale. E' infine un'altro epitaffio sulla cosiddetta "sinistra radicale", che regge il moccolo al Pd, il quale regge il moccolo al regime oligarchico, eurista e bancocratico.

(5) L'ultima riflessione. La battaglia di Genova è stata un'altra scintilla, un nuovo  che la
situazione ribolle, che la rivolta popolare che sta montando e prima o poi deflagrerà. Quando la sollevazione sarà generale, quando i tanti rivoli della rabbia confluiranno nel fiume in piena della sollevazione, non solo il governo e i partiti saranno travolti, verrà messo in discussione il regime eurista. La posizione che rivendica la rottura dell'eurozona e la riconquista della sovranità economica e politica, se saprà stare nel fuoco del confitto —se quindi saprà uscire dalla bolla internettara e liberarsi dall'elitarsimo— diventerà maggioritaria. Sinistra e destra si ridefiniranno quindi entro questo nuovo perimetro sovranista: Quale sovranità? per andare dove? per quale idea di società?

venerdì 22 novembre 2013

QUANTO DURERÀ IL GOVERNO LETTA-NAPOLITANO? di Emmezeta


22 novembre. Sono diversi gli indicatori di una situazione sociale in ebollizione. Numerose sono le proteste sociali che attestano che l'indignazione dei più diversi strati popolari sta crescendo. Questi tanti rivoli della protesta non hanno trovato sino ad ora il modo di confluire in un grande fiume, nella sollevazione generale. La mobilitazione autonoma promossa per il 9 dicembre sarà una piccola prova generale. Nel frattempo nel Palazzo la guerra per bande continua.


«La spaccatura del Pdl, la lotta intestina nel Pd, la rottura di Scelta civica, il salvataggio quirinalizio della Cancellieri, il caos sulla Legge di stabilità, la bocciatura europea della stessa legge, la fine delle Fabbriche di Vendola nella fabbrica di Riva, mentre in Basilicata il 53% degli elettori ha scelto l'astensione. Ecco cosa ci ha offerto solo negli ultimi giorni la politica italiana, nell'era della cosiddetta "stabilità".

E non è finita. Il voto sulla finanziaria vedrà probabilmente il passaggio immediato della neonata Forza Italia all'opposizione, poi (il 27 prossimo) avremo la decadenza di Berlusconi, il 3 dicembre la decisione della Corte costituzionale sulla legge elettorale, ed infine l'8 dicembre l'incoronazione di Renzi a segretario di un partito di cui non controlla i gruppi parlamentari.

Quale sarà il quadro politico alla fine di questo tourbillon? Certo, dopo tanto scompiglio è probabile che segua una breve fase in cui ognuno cercherà di mettere ordine in casa propria, ma non sarà esattamente un periodo di tregua come quello sognato da Napolitano. Sarà piuttosto un periodo turbolento, in cui Letta proseguirà la sua navigazione fatta di tagli, tasse e svendita del patrimonio pubblico (come quella annunciata dal Consiglio dei ministri di ieri). Questa politica avrà sì il sostegno di una maggioranza relativamente più stabile, ma con un consenso sempre più basso. Il tutto in attesa delle elezioni europee di maggio.

Ora le minacce a Letta non vengono più dal defunto Pdl. Anzi, l'opposizione del Gran Buffone gli darà qualche carta in più in Europa e qualche grana in meno in patria, visto che i transfughi del Ncd (Nuovo centrodestra) tutto faranno meno che mettere in difficoltà il loro governo. La vera minaccia è ora interna al Pd, e si chiama Renzi. Un po' come accadde sei anni fa al governo Prodi con l'improvvido Veltroni.

Il sindaco di Firenze tenterà l'azzardo del "tutto subito"? Forse no, anche se sbaglieremmo ad escludere totalmente quest'ipotesi. Più probabile, sembrerebbe, che egli decida di usare la tattica del logoramento. Una tattica che implica ugualmente tempi brevi anche se non brevissimi.

Se questo sarà lo scenario, ancor più decisive saranno le elezioni europee. Decisive per motivi di carattere generale, dato che questa volta vi si potrà leggere un voto pro o contro l'Unione Europea. Gli euristi di ogni dove, in Italia capeggiati dal primo ministro in carica, hanno già lanciato la loro sfida: gli europeisti dovranno battere quelli che loro chiamano "populisti".

Ma decisive, all'interno del quadro più generale, le europee lo saranno anche per gli equilibri politici nazionali. Quale sarà il risultato complessivo delle forze che andranno a comporre la maggioranza governativa dopo l'uscita di Forza Italia? In proposito, chi scrive fa una scommessa: i partiti della maggioranza parlamentare, che già oggi sono di fatto minoranza nel paese, avranno molte difficoltà a raggiungere il 40%, ma di certo non andranno comunque oltre il 45% dei voti validi, sancendo così anche formalmente il carattere minoritario del governo in carica.

Insomma, quella che si prepara è una gigantesca débâcle per Letta e soci. Il fatto è che i fuoriusciti dal Pdl non hanno una loro forza nel paese. Ed alle europee non ci sarà il paracadute degli apparentamenti. E, parole di Bondi, essi sono il "nulla". Un nulla che non si capisce perché dovrebbe fare una fine diversa da quella di Fini, Casini, Monti.

Se così andranno le cose avremmo, nell'arco di un anno, la trasformazione del governo di "larghe intese", in governo di minoranza nel paese. E da lì in avanti sarebbe davvero dura per l'esecutivo Napo-Letta. Forse non saremmo ancora al momento del redde rationem, ma di certo anche la carta giocata dal Quirinale la primavera scorsa andrebbe rapidamente ad esaurirsi. Con un vantaggio non da poco per chi vorrà e saprà proporre alternative radicali al governo delle oligarchie euriste».

giovedì 21 novembre 2013

«CARO GIULIETTO, TI SCRIVO....» di Rodolfo Monacelli

21 novembre. Il PUDE (Partito Unico dell’Euro), come ogni mostro mitologico, ha mille facce, mille forme e mille aspetti. A volte si nasconde in luoghi e persone insospettabili. È il caso dell’articolo uscito il 14 novembre su Megachip a firma Giulietto Chiesa intitolato Chi vuole la fine dell'Europa?
Chi scrive ha ben chiare le posizioni di Giulietto Chiesa, e della sua organizzazione Alternativa, sull’Europa e sull’Euro. Posizioni ondivaghe, inconcludenti, senza alcuna proposta realistica sulla crisi dell’Eurozona e che hanno da sempre sfiorato il luogocomunismo eurista e del “Più Europa”.

Alcune citazioni saranno significative per giustificare queste parole:

«Ritengo che, per ora, euro ed Europa (per l’Europa come istituzione il ragionamento dev’essere assai più corposo di quello che qui appena accenno) godano ancora di una certa popolarità, di un appeal molto diversificato ma di cui dobbiamo tenere conto. Se sono i nemici a demolirli, per conto loro, è un conto (e saranno loro a dovere spiegare perché lo fanno); se siamo noi a gridare ai quattro venti che è questo che vogliamo, mi pare evidente che ci assumiamo la corresponsabilità di quella loro decisione» [Giulietto Chiesa, Uscire dall'Euro? Lettera a Giulietto Chiesa. 25 novembre 2011]
«La valenza culturale e politica di una parola d’ordine come quella di uscire dall’Europa è, a mio avviso, del tutto negativa. Lancia un messaggio regressivo, di chiusura provincialistica, di ristrettezza culturale, di isolazionismo». [Giulietto Chiesa, Riflessioni su alcuni orientamenti tattici e strategici di Alternativa. 1 gennaio 2012]
L’articolo in qustione, però, pone un punto di non ritorno. Non siamo più soltanto di fronte a posizioni velleitarie, ma a una vera e propria scelta di campo.

Leggiamo insieme:

«Io voglio un'Europa democratica e solidale, e giusta e pacifica. E forte abbastanza per contare nell'arena mondiale».

Come non è dato saperlo, dati i rapporti di forza interni all’Unione Europea, così come non è dato sapere come mai, così come tutti gli euristi di tutto il mondo, si identifichi l’Europa con l’Unione Europea.

Ma non è finita:

«Ora, tutti sappiamo che l'euro è diventato una tagliola, un cappio scorsoio che c'impicca. Ma che sia l'euro la causa di tutto questo non lo credo. La crisi del debito non è nata con l'euro e uscire dall'euro non ci salverà».

A meno che Alternativa non creda al luogocomunismo imperante per cui il popolo italiano sarebbe vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”, o al limite per colpa della corruzione e degli sprechi, sappiamo bene che la crisi del debito inizia invece proprio con l’euro. Iniziamo col dire, infatti, come bene hanno chiarito numerosi economisti di varie scuole, che la crisi dell’eurozona non è una crisi da debito pubblico, ma da debito privato.


Come si vede dalla tabella a fianco (Fonte: Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2012), l’elemento comune alle cinque economie in crisi dall’entrata nell’euro (1999) allo scoppio della crisi (2007) è l’esplosione del debito privato, delle banche per essere precisi, che ha indotto i governi a intervenire facendosi carico dei loro debiti con soldi pubblici. Una strategia “imperialistica” da parte del capitalismo dell’europa del nord che ha inondato di liquidità i mercati del sud (che sarebbe stato impossibile senza una moneta unica tra paesi concorrenti): le prime economie colpite sono, infatti, proprio quelle nelle quali il debito estero è aumentato di più.

«Un bel giochetto (ti presto i soldi così mi compri i beni), simile a quello che la Cina gioca con gli Stati Uniti: sarebbe potuto durare più a lungo se da oltre Oceano non fosse arrivato lo shock del fallimento Lehman. Questo ha costretto le banche alemanne a rientrare dalle loro esposizioni, facendo, come nella miglior tradizione locale, la voce grossa coi più deboli: i Pigs». [Alberto Bagnai, Quelli che... la colpa è del debito pubblico, 3 agosto 2012]
Quindi, caro Giulietto, le responsabilità dell’esplosione del debito sono o non sono dell’Euro? Il problema del debito (privato, trasformatosi in pubblico) sarebbe stato o no risolvibile con una moneta sovrana? Così come è o non è a causa dell’Euro e dell’Unione Europea che il nostro paese non può avere una politica economica autonoma e una sovranità economica, monetaria e politica? Attendiamo risposte.

L’articolo, però non finisce qui. Ed ecco la parte che, se non fosse malafede, rappresenterebbe ignoranza e pressapochismo:

«Ma noi non siamo per "nessuna Europa", siamo per "un'altra Europa". E qui è la differenza da tenere alta, come uno scudo che ci impedisca di essere insozzati dagli schizzi di stupidità, nei prossimi mesi. Perché è ormai pieno di partiti e movimenti, in tutti i paesi europei, che puntano direttamente e semplicemente a cancellare l'Europa. In nome non dei popoli, ma di un nazionalismo di ritorno, virulento, ottuso come sempre lo sono i nazionalismi, xenofobo, separatista, bellicoso. Noi non intendiamo confonderci con questa robaccia di scarto. […] La crisi del debito non è nata con l'euro e uscire dall'euro non ci salverà. Ma l'offensiva contro l'euro è la scorciatoia demagogica più semplice. Tanto semplice che, in Italia, chi la sceglie si troverà a fianco della Lega e di Berlusconi, o dei suoi epigoni. Compagnia sgradevole. 

Noi in quella compagnia, insieme ai vari Paragone di turno, che, venendo dalla Lega, si portano dietro tutto il suo liquame, e che adesso cavalcano il ronzino più comodo per darla a bere al gonzo, in quella compagnia non vogliamo andare».
Lasciamo perdere i toni ed entriamo nel merito. In poche parole, secondo Giulietto Chiesa e Alternativa, chi vuole uscire dall’euro e dall’Unione Europea vuole chiudere le frontiere interne, togliere Nizza e la Savoia alla Francia, deportare gli immigrati e segregare le minoranze interne. Veramente credi questo caro Giulietto? Veramente non ti sei accorto che in tutta Europa, e più lentamente anche in Italia, le forze di sinistra hanno impugnato la lotta contro l’euro, l’austerità e l’Unione Europea? Perché citare le une e non le altre? Non puoi non sapere che l’uscita dall’euro può essere fatta da “destra” o da “sinistra”. E perché affermi falsamente che nessuno considererebbe il contesto geopolitico dell’Italia una volta fuoriusciti dall’Euro e dall’Ue quando, al contrario, il passo successivo per un’uscita “da sinistra” sarebbe, invece, un mutamento radicale nella collocazione internazionale del nostro Paese, che diventerebbe protagonista di una politica di cooperazione con i paesi dell’Europa del sud, con l’area mediterranea, con i Brics e, più in generale, con tutti quei paesi che, come noi, hanno la necessità di controllare i movimenti di capitale?

Ci pare strano, inoltre, che Alternativa che doveva essere un movimento “né-di-destra-né-di-sinistra” improvvisamente, quando si parla di euro e di Europa, pone dei paletti ideologici. 

Come mai? 


Non pensiamo che tutto questo sia un caso, ma tutto ciò dipenda, anche nel caso di Alternativa che si comporta, al di là delle belle parole, esattamente come le “sette di sinistra”, da scarsa comprensione della realtà e della natura del capitalismo contemporaneo. Non si comprende, cioè, per un malinteso “internazionalismo” (oggi trasformato in “europeismo”), che in questo modo si fa il gioco del capitale e dell’attuale sistema di potere nazionale e internazionale. Sarà, invece, in un mondo sempre più dominato dalle oligarchie finanziarie transnazionali, la lotta per la sovranità politica, monetaria ed economica dei popoli e degli stati, coniugando liberazione sociale e liberazione nazionale, a porsi in oggettivo contrasto con gli interessi del neoliberismo e dei suoi strumenti.

Giulietto, sei ancora in tempo. Tu che hai sempre lottato contro l’informazione main-stream non puoi farti veicolo dell’informazione eurista come un piddino qualsiasi. L’11 e il 12 gennaio vieni al convegno, organizzato da Bottega Partigiana insieme all’MPL, intitolato Oltre l'euro. La sinistra, la crisi, l'alternativa.

Ti aspettiamo. Ti assicuriamo che non troverai razzisti, segregazionisti o leghisti.



Fonte: Bottega partigiana

mercoledì 20 novembre 2013

la sinistra e l'euro (13) USCIRE DALL'EURO? ROBA DA MATTI, ANZI DA FASCISTI! di Giulietto Chiesa

20 novembre. In questa rubrica "la sinistra e l'euro" non potevamo mancare di segnalare la posizione di Giulietto Chiesa (nella foto), il gorbacioviano. Nomen omen. Come un Papa in preda ad un mistico  delirio lancia una solenne scomunica: l'uscita dall'euro è bollata come una «scorciatoia demagogica», una «risposta reazionaria», una «robaccia di scarto», una «spazzatura reazionaria», un «nazionalismo xenofobo». Leggere per credere.

«A maggio 2014 si vota per un nuovo Parlamento Europeo. Difendere questa Europa è impossibile. È divenuta una struttura autoritaria, che conserva solo un cerimoniale democratico. Maggiordomi, camerieri, camarlenghi, servitori di camera, affaristi, campanari, prostituti, talvolta semplici illusi che vengono guidati per mano da lobby potenti e astute. Che fungono a copertura per poteri che nessuno ha mai eletto e che non desiderano neppure di essere eletti: non ne hanno bisogno per comandare.

Dunque questa Unione Europea è da combattere con tutte le forze di cui disponiamo. Senza alcun dubbio: questa è un'Europa contro i popoli. Un'Europa delle banche e dei mercati. Un'Europa che prepara guerra e si nutre di ingiustizie.

Gorbaciov e Chiesa

Ma noi non siamo per "nessuna Europa", siamo per "un'altra Europa". E qui è la differenza da tenere alta, come uno scudo che ci impedisca di essere insozzati dagli schizzi di stupidità, nei prossimi mesi. Perché è ormai pieno di partiti e movimenti, in tutti i paesi europei, che puntano direttamente e semplicemente a cancellare l'Europa. In nome non dei popoli, ma di un nazionalismo di ritorno, virulento, ottuso come sempre lo sono i nazionalismi, xenofobo, separatista, bellicoso.

Noi non intendiamo confonderci con questa robaccia di scarto. Ma saremmo ingenui se la sottovalutassimo. Perché cresce come la gramigna, come la spazzatura e i rifiuti che sono ormai troppi. Ed è spazzatura che già cerca di organizzarsi in sistema anch'essa. Da nord a sud cresce dappertutto.

È la risposta reazionaria alla reazione finanziaria che ci governa. Dal partito dei Finnici, al Fronte Nazionale di Marine Le Pen (già in testa ai sondaggi); dal Partito (razzista) della Libertà dell'olandese Geert Wilders, ai Democratici Svedesi, al Vlaams Belang; dallo Jobbik ungherese all'Alba Dorata greca. Per arrivare ai più rispettabili (si fa per dire) Independence Party britannico, e alla Alternative Für Deutschland. L'elenco è più lungo. Ve la figurate un'Europa fatta di staterelli più o meno grandi, che chiudono le frontiere interne, che cominciano a disputarsi territori contesi, che deportano gl'immigrati, che segregano le minoranze etniche e linguistiche al loro interno. Saremmo in un inferno, altro che Erasmus!
Con Di Pietro ai tempi de L'Ulivo

Tutti questi partiti e movimenti - l'avrete notato - si muovono con la bandiera innestata dell'uscita dall'Europa e, naturalmente, dall'euro. Ora, tutti sappiamo che l'euro è diventato una tagliola, un cappio scorsoio che c'impicca. Ma che sia l'euro la causa di tutto questo non lo credo. La crisi del debito non è nata con l'euro e uscire dall'euro non ci salverà. Ma l'offensiva contro l'euro è la scorciatoia demagogica più semplice. Tanto semplice che, in Italia, chi la sceglie si troverà a fianco della Lega e di Berlusconi, o dei suoi epigoni. Compagnia sgradevole.

Noi in quella compagnia, insieme ai vari Paragone di turno, che, venendo dalla Lega, si portano dietro tutto il suo liquame, e che adesso cavalcano il ronzino più comodo per darla a bere al gonzo, in quella compagnia non vogliamo andare.

Forse (ma non credo) resteremo in minoranza. Ma - in questo caso - meglio soli che male accompagnati. Io voglio un'Europa democratica e solidale, e giusta e pacifica. E forte abbastanza per contare nell'arena mondiale. La voglio libera da ogni alleanza militare. Nessuno dei nemici giurati dell'Europa e dell'euro dice queste cose. E questa è la ragione principale che mi fa diffidare di loro. Di tutti, siano essi di destra o di sinistra». 


Fonte: Megachip

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